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IRON MAIDEN "NO PRAYER FOR THE DYING" (1990)



Gli Iron Maiden sono in pieno subbuglio. Adrian Smith lascia la navicella madre per mettersi in proprio con i suoi ASAP (eccellente il loro "Silver & Gold"), Bruce Dickinson è reduce dalla pubblicazione del suo primo lavoro da solista "Tattoed Millionaire", con la "maledizione" di Steve Harris, che vede i progetti esterni a casa Maiden come fumo negli occhi.

Le crepe sono visibili e sempre più profonde, ed i lunghissimi e sfiancanti tour in giro per il mondo sono la scintilla che accende la fiamma del dissenso. Il posto di Adrian Smith viene occupato da Janick Gers, chitarrista che aveva contribuito a scrivere nel suo piccolo la storia della NWOBHM con i formidabili White Spirit (1980), accasandosi successivamente nella Gillan Band per la realizzazione di "Magic" (1982). A tal proposito, consiglio a qualsiasi detrattore di Gers, per le sue plastiche pose sul palco, di andarsi a riascoltare (o magari ascoltare per la prima volta) i succitati dischi, prima di sparare letame sulle sue doti di compositore. Janick è anche il responsabile di tutte le parti di chitarra su "Tattoed Millionaire", così la sua candidatura come successore di Smith diventa la scelta più logica e continuativa.

"Ci siamo stufati di suoni troppo sofisticati, vogliamo riportare gli Iron Maiden alla loro essenzialità, ed il prossimo album lo dimostrerà": queste le parole di Bruce nelle interviste promozionali a "Tattoed Millionaire", uscito nella tarda primavera 1990. "No Prayer For The Dying" esce a settembre dello stesso anno, e mantiene le promesse esplicitate dal cantante inglese, almeno da un punto di vista squisitamente stilistico. Gli Iron Maiden asciugano il sound dagli orpelli delle due opere precedenti, ovvero dalle synth guitars di "Somewhere In Time", e dalle tastiere vere e proprie che avevano contribuito in modo determinante alla creazione delle atmosfere epic/fantasy scenografate in "Seventh Son Of A Seventh Son". È tutto oro quello che ci viene propinato dalle dichiarazioni mediatiche della band? Si e no.

Si, perché effettivamente il rigurgito nostalgico, sbandierato ai quattro venti, trova riscontro in canzoni molto più basiche ed aggressive. No, perché la qualità compositiva media non può competere con quella dei due capolavori succitati. Da qui a definire "No Prayer For The Dying" un pessimo album, ce ne passa. Eccome se ce ne passa. "Tailgunner", ad esempio, è una mirabile opener, dove il basso di Harris pompa come un dannato, gareggiando proprio come ai bei tempi con le twin guitars di Murray/Gers. La voce di Dickinson vola over the top, e tiene fede al celebre appellativo di "air raid siren", scorrendo dall'alto in basso l'intero pentagramma. Il singolo "Holy Smoke" viene accompagnato da un videoclip che definire imbarazzante è persino poco: la ritmica è basica, le parti vocali essenziali, ed il refrain tutto sommato funziona. Quando però i Maiden decidono di alzare la posta in gioco, i risultati non si fanno attendere: la title-track, ad esempio, è un affascinante affresco gotico, dove le chitarre creano un gioco di "colori" che anticipano una melodia memorabile. Esercizio stilistico certamente già visto, ma che solo loro sono in grado di replicare con simile efficacia, e soprattutto con una credibilità così profonda. "Public Enema Number One" e "Fates Warning" (nettamente meglio la prima della seconda) sono due cavalcate epiche che non aggiungono nulla di nuovo al loro songbook, ma che indubbiamente trattano la materia con la maestria che li contraddistingue fin dagli albori dei leggendari "The Soundhouse Tapes".

La peculiarità di "No Prayer For The Dying" è probabilmente proprio questa: tornare ad un approccio più "stradaiolo", calando l'ugola di Dickinson in un contesto forse più prossimo all'attitudine di Paul DiAnno. Il vero passaggio a vuoto è invece ascrivibile alle prime due tracce del lato B del 33 giri, prima con una "The Assassin" che fallisce (anche se non miseramente) nel suo tentativo di creare una dinamica prog-metal erede della formidabile "Sea Of Madness", poi con una "Run Silent Run Deep" davvero troppo piatta e scontata per non essere candidata quale "filler" palese del disco. Peccato, perché poi il micidiale riff "bastardo" di "Hooks In You" non fa prigionieri, gettando un ponte temporale a ritroso, quando rock'n'roll e punk erano ancora un ingrediente importante della loro ricetta. Riguardo a "Bring Your Daughter To The Slaughter", si è scritto e detto fin troppo: composta da Bruce per la colonna sonora di Nightmare 5, il pezzo è talmente epidermico da costringere Harris ad inserirla nell'album, con tanto di incoronazione a secondo singolo.

A tal proposito, dice Steve: "Quando Dickinson mi fece ascoltare questo pezzo, io gli dissi che era un gran bastardo, e che la volevo assolutamente sul nuovo disco". La scelta paga, perché "Bring Your Daughter To The Slaughter" risulta essere tuttora uno dei maggiori successi nella più che quarantennale carriera del gruppo. Il rigore formale di "Mother Russia", con il suo andamento marziale che rispecchia perfettamente i contenuti del testo, chiude un lavoro spesso molto sottovalutato, ma che andrebbe assolutamente riscoperto sotto la giusta ottica.
Anche a discapito di titoli ben più celebrati.


ALESSANDRO ARIATTI




 

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