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BLACK SABBATH "SEVENTH STAR" (1986)



Dopo il rinnovato interesse generato dall’unione con Ronnie James Dio ad inizio decennio, che portò alla pubblicazione di due capolavori come “Heaven & Hell” e “Mob Rules”, e di un doppio live particolarmente problematico (“Live Evil”), la band fece buon viso a cattivo gioco alla decisione del vocalist americano di abbandonare la nave. “Sarà un nome grosso” disse lo stesso Toni Iommi prima di annunciare l’ingresso di Ian Gillan per le registrazioni di “Born Again”, paradossalmente e nonostante le dichiarazioni dello stesso cantante (“io porto i jeans, loro sono sempre vestiti in pelle nera: apparteniamo a due mondi diversi”), uno dei lavori più oscuri e solforosi dell’intera discografia Black Sabbath: non vorrei esagerare, ma alcune canzoni del succitato 33 giri (“Trashed”, “Disturbing The Priest”, “Zero The Hero”, la stessa title-track) sembravano voler evocare l’Inferno sulla terra. Come andò la faccenda “Black Purple” o “Deep Sabbath” che dir si voglia, è ormai storia: il gruppo rimase pietrificato dal suono di “Born Again”, e Gillan lo definì addirittura “roba da gettare nella spazzatura”. La reunion dei Deep Purple per l’incisione di “Perfect Strangers” fece il resto, lasciando nuovamente i Black Sabbath con un microfono vacante. Stavolta però si aggiunsero anche basso e batteria, visto che Butler e Ward non ressero al contraccolpo legato al feedback estremamente negativo di “Born Again”. Resta, saldo al timone di comando di un’imbarcazione che fa acqua da tutte le parti, soltanto lui: Tony Iommi. Colui che, nel bene o nel male, ha sempre portato avanti il nome del gruppo, molto più di qualsiasi altro membro, presente o “latitante”. Mentre Ozzy fa letteralmente scintille con la sua band, e gli stessi Dio sembrano vivere un bel momento di gloria, i Black Sabbath se la passano male, malissimo. Quali Black Sabbath, poi? Oltre alla “mano sinistra del Diavolo”, resta soltanto il “quinto elemento”, ovvero il tastierista Geoff Nichols, fino ad allora destinato a suonare dietro il palco, ed improvvisamente assurto a simbolo di continuità rispetto al passato. “Seventh Star”, questo il titolo dell’album uscito a tre anni di distanza da “Born Again”, dovrebbe essere a tutti gli effetti un lavoro solista dello stesso Iommi, tuttavia la casa discografica esercita pressioni affinché sulla copertina compaia anche il nome del gruppo. Toni riesce a reclutare Glenn Hughes alla voce (ex Trapeze, e già bassista/secondo di Coverdale nei Deep Purple Mark 3), il giovane talento Eric Singer alla batteria, e Dave Spitz al basso. Il risultato è un disco ovviamente “sui generis”, con canzoni che richiamano spesso più i Deep Purple (“Turn To Stone”) oppure i Rainbow (la title-track) che non ai tenebrosi occultismi dei Black Sabbath, intesi nella loro esperienza complessiva, con e senza Ozzy. La produzione di Jeff Glixman è chiaramente rivolta a conquistare il pubblico class/hair metal, come dimostra immediatamente il frastornante riverbero del drumming nella rutilante opener “In For The Kill”, il vellutato tappeto di tastiera nella ballad “No Stranger To Love” (unica traccia con Gordon Copley al basso al posto di Spitz), scritta e pensata appositamente per soddisfare le esigenze dell’audience americana. Addirittura “Danger Zone” vede Iommi e compagni bazzicare dalle parti dei Ratt, in una sorta di confronto a distanza con l’Ozzy Osbourne di “The Ultimate Sin”. La già citata “Seventh Star”, posta a suggello del lato A del vinile, sembra il perfetto mix tra lo stile di “Heaven & Hell” e quello di “Long Live Rock’n’Roll” dei Rainbow, con una citazione particolare per le orientaleggianti trame di “Gates Of Babylon”. Iommi si ritaglia persino uno spazio hard blues in “Heart Like A Wheel”, unica concessione vintage di un album che vuole invece sembrare molto attuale ed ammiccante. “Seventh Star” viene accolto in maniera decisamente positiva dalla critica, che ne apprezza la freschezza compositiva e la voglia di non suonare datato, un po’ meno dal pubblico che, come sempre succede per i “mostri sacri” del settore, mal digerisce l’andirivieni di cantanti che non si identificano con il trademark originale. La formazione dell’album dura comunque il tempo di un battito di ciglia, visto che Glenn Hughes deve combattere i propri demoni personali legati all’abuso di sostanze stupefacenti, tanto da costringere Toni Iommi alla sua sostituzione (a tour iniziato) in favore dell’astro nascente Ray Gillen. Ma questa è già un’altra storia.


ALESSANDRO ARIATTI 






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