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D.C. COOPER "D.C. COOPER" (1999)



Per alcuni anni, i Royal Hunt sono stati l'autentica "bonus track" giapponese del mercato hard'n'heavy. Proprio come le canzoni aggiuntive che i gruppi erano soliti includere nelle edizioni nipponiche dei loro album, così anche la band danese capitanata dal tastierista André Anderssen costituiva uno scrigno di tesori a cui poteva accedere solamente il pubblico del Sol Levante. Tutto ciò fino a "Moving Target", disco che vede l'ingresso nella band del cantante americano D.C.Cooper. Solamente dopo, anche alla platea europea viene concesso il "lusso" di assaporare le delizie pomp metal dei precedenti "Land Of Broken Hearts" e "Clown In The Mirror". In seguito alla realizzazione di "Paradox" ed al relativo tour, entrambe "situazioni" di successo, è proprio il frontman statunitense a lasciare un pò tutti di stucco, annunciando mezzo stampa la volontà di abbandonare i Royal Hunt. Sicuramente una mossa "figlia del tempo", quando ancora le vendite dei dischi si attestano su cifre più che decenti, autorizzando sogni di gloria più o meno utopici. Passa poco tempo dallo split con il gruppo danese, e Cooper pubblica il suo primo lavoro da solista, intitolato semplicemente col proprio nome e cognome. Affiancano D.C. ben tre quinti dei Pink Cream 69, nelle persone di Alfred Koffler (chitarra), Dennis Ward (basso), Kosta Zefiriou (batteria), a cui si aggregano Tore Ostby (chitarra) dei Conception/Ark e Guenter Werno (tastiere) dei Vanden Plas. Si può parlare di "supergruppo"? Certo non nei termini in cui venivano indicati negli anni 80 i vari Asia o Bad English, ma se vengono calcolate le debite proporzioni per l'epoca, la terminologia non appare neppure troppo azzardata. "D.C. Cooper" si rivela un album sicuramente più "asciutto" rispetto alle ridondanze dei Royal Hunt, perchè Werno non può certo competere con Anderssen, né in termini di tecnica, tanto meno in quanto a presenza ingombrante ed istrionica. Protagonista assoluto della scena appare ovviamente il singer americano che, liberatosi di determinati vincoli strutturali, si sente libero di "dirigere l'orchestra" come più gli aggrada. Non che lo stile si discosti molto dalla regalità che lo ha contraddistinto in "Moving Target" prima ed in "Paradox" poi; l'impronta Royal Hunt si sente eccome, ma tutti i riflettori sono adesso puntati verso l'ugola di Cooper, anziché dividere il proscenio con le onnipotenti keyboards di Anderssen. "Dream", ai limiti del class/AOR, è un esempio decisamente esplicativo di questa inedita dinamica, perorata da una produzione (dello stesso Dennis Ward) orientata ad esaltare i toni vocali, spesso e volentieri a discapito delle singole prestazioni strumentali. Diciamo che il mixing appare un tantino sbilanciato a favore dell'artista che regge il microfono, e se da un lato ne beneficiano stratificazioni armoniche dalle ambizioni molto elaborate, dall'altro ne soffre la nitidezza dell'operato da parte resto del gruppo, relegato quasi ad un ruolo di sparring partner. Dal punto di vista squisitamente compositivo, la maggior parte dei brani arreca la firma Cooper/Koffler, ed è naturale che il risultato finale non possa prescindere da un'impronta quasi Pink Cream 69, ovviamente rivisitati in chiave pomposa ed aristocratica. Già, perché "l'anima" di Cooper rimane sempre quella, ovvero del cantante che, per caratteristiche personali oggettive, sembra guardare tutti dall'alto in basso, ammantando le canzoni di una severa algidità espressiva. Sarà stato questo marchio di fabbrica, molto probabilmente, a conquistare KK Downing, che lo audizionò per sostituire Rob Halford nei Judas Priest ancora prima della sua entrata nei Royal Hunt. Ben tredici anni di separazione, poi Cooper ed Andre Anderssen decidono di tornare a collaborare assieme, in occasione di "Show Me How To Live". Tuttavia, anche se la sua fama resta legata a doppio filo con quella della band danese, dimenticare la bontà di questo album sarebbe un errore madornale.


ALESSANDRO ARIATTI




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