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DEEP PURPLE "HOUSE OF BLUE LIGHT" (1987)



I fasti di “Perfect Strangers”, ritorno in pompa magna dei Deep Purple universalmente più amati dai milioni di fans del pianeta, sono ancora freschi di entusiasmo. Tuttavia, come ormai sanno anche i sassi, Ritchie Blackmore e Ian Gillan non si sopportavano negli anni ’70, e continuano a non sopportarsi, indipendentemente dalla decade di riferimento. Per la stragrande maggioranza, i pezzi del
disco/capolavoro precedente erano già stati vergati in calce dal chitarrista inglese prima della tanto acclamata reunion, quasi a rivendicare una sorta di continuità artistica nei confronti dei classici del passato. Tutta altra storia per “The House Of Blue Light”: i cinque devono verificare una coesione che, nel caso di brani immensi come “Knockin’ At Your Backdoor”, era già stata assicurata. Se posso azzardare un paragone alquanto altisonante, questo nuovo album rappresenta un po’ il “Fireball” della situazione, nel senso che stiamo parlando di un lavoro stilisticamente interlocutorio ed alquanto eterogeneo. La produzione di Roger Glover suona completamente differente rispetto alla rabbiosa urgenza di “Perfect Strangers”, preferendo un approccio decisamente più sofisticato, quasi progressive nelle pastose dinamiche strutturali. Eppure il disco sembra aprirsi nel segno della tradizione, con quell’Hammond che apre in modo maestoso la strepitosa “Bad Attitude”, il cui nervoso riff di chitarra ricorda da vicino quello di una “Nobody’s Home” leggermente levigata. E’ già con “The Unwritten Law” che si capisce di avere tra le mani un “different animal”, soprattutto per quel giro di synth da parte di Lord molto più Yes che Deep Purple. “Call Of The Wild” è uno scanzonato pop/AOR piuttosto banale, seppur efficace nella semplicità della sua linea melodica, ma ci pensa Ritchie a tirare fuori dal cilindro uno dei suoi tipici riff spaccamontagne nella successiva “Mad Dog”: canzone dal tiro micidiale, ed un assolo che rientra prepotentemente tra i migliori del post reunion. “Black & White” chiude il lato A senza infamia e senza lode, segnalandosi soprattutto per un testo molto pungente in tipico stile Gillan. “Hard Lovin’ Woman” ripresenta tematiche hard rock’n’roll particolarmente ficcanti, prima che il flavour rinascimentale di “The Spanish Archer” lasci tutti a bocca aperta. Ritchie è un fiume in piena, la sua Stratocaster cesella melodie dall’inizio alla fine, e personalmente ho sempre considerato questo brano il “turning point” per le successive scelte artistiche con i Blackmore’s Night assieme alla moglie Candice. La prog-oriented “Strangeways” conferma grande qualità compositiva ma anche un’identità confusa, impressione ulteriormente confermata dal triviale blues di “Mitzi Dupree”, un pezzo che Ritchie odia profondamente, tanto da registrare le sue parti praticamente in presa diretta, ma nel quale Gillan gigioneggia da par suo, in un testo dai palesi riferimenti sessuali. Una goduria per le orecchie di molti, sicuramente non per quelle di Mister Blackmore. Quasi a voler ricordare che “House Of Blue Light” resta comunque un album firmato Deep Purple, la chiusura viene affidata alla decisa ortodossia hard rock di “Dead Or Alive”, con tanto di incroci solisti tra chitarra e tastiere. Non il disco che i fans si sarebbero aspettati dopo la fedele tradizione celebrata da “Perfect Strangers”, questo è poco ma sicuro: ma si sa, con i Deep Purple nulla dovrebbe mai essere dato per scontato, soprattutto se Ritchie e Ian si ritrovano nella stessa stanza.

ALESSANDRO ARIATTI 






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