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DEEP PURPLE "PERFECT STRANGERS" (1984)



Diciamo la verità, senza l'avvento della NWOBHM non ci sarebbero state molto reunion e/o "rinascite" di nomi illustri degli anni 70. Una su tutte, quella dei Deep Purple, intesi ovviamente nella storica formazione Mark II, quella universalmente riconosciuta come "classica" da parte della critica e della stragrande maggioranza dei fans. Dopo varie false partenze, con Blackmore e Glover ancora impegnati nei RainbowIan Paice e Jon Lord nei WhitesnakeIan Gillan con la sua band ed i Black Sabbath di “Born Again”, le coincidenze astrali giuste si intersecano nel 1984. Non so quanti ricordano il clamore, l'attesa febbrile, l'eccitazione del mondo hard rock all'annuncio della sospirata notizia. Per la "young generation" dell'epoca, significa infatti avere l'opportunità di rivedere in azione una band mitica, della quale si è soltanto sentito parlare da parte di fratelli maggiori appassionati al genere. Quella di "Smoke On The Water" e "Highway Star", tanto per rendere l'idea. Ovviamente l'assalto all'arma bianca da parte dei nuovi virgulti del metal tonante d'Oltremanica, pone i rinati Deep Purple in una situazione un po' scomoda e per certi versi paradossale, almeno per dei pionieri del suono duro. Iron MaidenSaxonDef LeppardMotorhead e compagnia d'assalto hanno alzato di brutto l'asticella della sacralità elettrica, ed il dubbio, anche se irriverente, è chiaramente e sostanzialmente uno. Sapranno Ritchie Blackmore e soci reggere l'urto di una tale "armata" senza apparire vetusti o, nel peggiore dei casi, patetici? Le perplessità vengono spazzate via come un uragano da "Perfect Strangers": quattro canzoni per lato, un sound classico ma urgente, confezionato alla perfezione da Roger Glover, la cui attività di produttore gli ha permesso di rimanere aggiornato con le più recenti tecnologie di registrazione. La musica che esce dalle casse è dinamica, ha un respiro vitale, si "muove" a seconda delle esigenze delle singole canzoni. Capisco che oggi, nel mare informe dell'appiattimento digitale, sembrano concetti preistorici, eppure appena la puntina del giradischi plana sulla leggendaria opener "Knockin' At Your Backdoor", il profumo che si sente nell'aria è quello di magia ancestrale, non certo di aria fritta. Il monumentale riff di Blackmore è nervoso, scattante, Lord lo segue come un metronomo, e Gillan inscena una linea vocale assolutamente degna del suo ingombrante passato. Non stupisce affatto che la suddetta song non uscirà mai più dalla setlist live della band negli anni e decenni a venire. L'altro memorabile episodio del 33 giri è ovviamente rappresentato dalla title-track, con quel gigantesco riff di Hammond destinato a diventare un must nel repertorio del gruppo. Tuttavia "Perfect Strangers" non è solamente due capolavori più altre sei songs “qualunque”, proprio per niente. Ciò significherebbe ignorare, ad esempio, una “Under The Gun” che possiede il mood del rock’n’roll e la pesantezza dell’heavy metal, capace di definire un sofisticato mix incalzato dalle lyrics al vetriolo di Gillan (“stupid bastards and religious freaks, so safe in their castle keeps” rimane ancora oggi una strofa memorabile). Per non parlare di quella “Nobody’s Home” che parla il verbo del loro tipico 70’s touch, aggiornato alla decade di riferimento, oppure di una “Mean Streak” talmente irruenta da apparire irrefrenabile. Le influenze “classicheggianti” che hanno fatto la fortuna del duo Blackmore/Lord ricompaiono come per incanto nella veloce “A Gypsy’s Kiss”, mentre le atmosfere struggenti di “When A Blind Man Cries” vengono racchiuse tra le vellutate note della ballad “Wasted Sunsets”. L’album viene idealmente suggellato da “Hungry Daze” dove, anche testualmente, i Deep Purple rivendicano ricordi legati alla primigenia investitura nel mondo del rock duro, con versi importanti quali “in a dark and sweaty room in ’69 tables turning”, oppure un ancora più esplicativo “we all came out to Montreux but that’s another song”. Ovviamente, con un’opera di tale levatura, tutte le perplessità vengono diradate come nebbia al sole, anche se è il gruppo per primo a porsi determinati quesiti a ridosso della sua pubblicazione. Dice Blackmore: “Quando ci siamo rivisti per la prima volta dopo tanto tempo, mi sono chiesto se la nostra chimica avrebbe funzionato anche negli anni 80. Poi mi sono detto: chi se ne frega, facciamolo e basta. Il disco avrebbe dovuto suonare come la nuova versione di ‘Machine Head’, e penso che siamo riusciti a trovare il giusto accordo tra le parti”. Mai parole furono più azzeccate.


ALESSANDRO ARIATTI




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