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DIO "SACRED HEART" (1985)



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Holy Diver" e "The Last In Line" hanno definitivamente proiettato la stella di Ronnie James Dio nel firmamento heavy metal. Non che ci fossero dubbi sulle sue qualità canore, è altresì vero che, fino all'inaugurazione della band che porta il suo nome, il cantante americano aveva sempre avuto al fianco i migliori dei migliori. Leggasi Ritchie Blackmore coi Rainbow prima, e Tony Iommi coi Black Sabbath poi. Ora non ci sono più dubbi nemmeno riguardo alla sua maestria di compositore, qualità che va ad affiancarsi alle sue doti di inarrivabile vocalist. I Dio arrivano però all'appuntamento del terzo album da studio in una situazione certamente non ideale. Le frizioni, tra il giovane virgulto della sei corde Vivian Campbell e lo stesso Ronnie, si fanno sempre più accentuate, ed esplodono definitivamente in occasione della registrazione del singolo "Stars", ovvero la risposta del mondo metal al Hear'n'Aid. Quanto abbia soffiato sul fuoco dei dissidi questo ambizioso progetto non è dato sapere fino in fondo, resta il fatto che i due arrivano in studio per le registrazioni di "Sacred Heart" in una non auspicabile situazione di separati in casa. Alla base di tutto, c'è il rifiuto da parte di Campbell di firmare un contratto manageriale con Wendy Dio, moglie di Ronnie. Poi, come si siano sviluppate le cose a livello interpersonale, solo i due diretti interessati lo sanno. Ovviamente il pubblico se ne frega di ciò che accade dietro le quinte, vuole ascoltare il risultato finale, con la speranza che sia all'altezza delle vertiginose aspettative. "Sacred Heart" vale i suoi due illustri predecessori? Assolutamente no, ma da qui a definirlo una delusione, ce ne passa. Il solito ingegnere del suono Angelo Arcuri confeziona una produzione che sfiora la perfezione, anche e soprattutto se paragonata all'allora rampante movimento hair metal. Ovviamente l'album non può assolutamente essere affiliato al succitato genere, tuttavia il sound si allinea a quello delle band più in voga dell'epoca, con un alleggerimento del tipico tambureggiare di Vinnie Appice in favore di un maggiore riverbero. Altro elemento che contraddistingue pesantemente le caratteristiche del disco è il "passaggio di grado" delle tastiere di Claude Schnell, che in alcuni brani diventano il vero e proprio strumento portante della situazione. Mi riferisco ovviamente al celebre singolo "Rock'n'Roll Children", possibilmente più prossimo ai Giuffria che non a "Holy Diver", ma anche alla maestosa title-track, un clamoroso mid tempo classicamente Dio, definito in maniera superba più dalle keyboards di Schnell che dalla guitar di Campbell. Il finto live di "King Of Rock'n'Roll" inaugura comunque il 33 giri all'insegna dell'elettricità, cercando di replicare l'immediatezza delle opener dei due lavori precedenti, ovvero "Stand Up And Shout" e "We Rock". Altro singolo dall’indubbio appeal è “Hungry For Heaven”, pomposa ed orecchiabile, che si posiziona nella scia di “Rainbow In The Dark” (“Holy Diver”) e “Mystery” (“The Last In Line”) con una vena, se possibile, ancora più radiofonica. Oltre all’enorme title-track, l’episodio che maggiormente si avvicina agli “old Dio”, è sicuramente “Like The Beat Of A Heart”, pesantissima nel suo incedere doom, ed oscura il giusto per quanto concerne il versante strettamente lirico. Non esiste comunque nessuna “vecchia gloria” superstite alla precedente decade che non abbia risentito dell’influsso degli anni 80 (Ozzy, Alice Cooper, Whitesnake, Aerosmith, ma la lista è infinita), ed è su questa falsariga che nascono pezzi abbastanza “leggeri” (almeno per i canoni artistici, talvolta intransigenti, di Ronnie) come “Another Lie”, “Fallen Angels” e “Shoot Shoot”. Forse episodi minori per il repertorio del gruppo, ma perfettamente in linea con le migliori proposte del periodo. Persino la sostenuta “Just Another Day” che, nei contenuti musicali, si ricollega palesemente alla leggendaria “Neon Knights” (“Heaven & Hell”), viene risolta da un’estetica che tiene conto di determinate necessità contemporanee. “Sacred Heart” non ripete le meraviglie dei due episodi precedenti, men che meno le irripetibili “stregonerie” firmate Rainbow e Black Sabbath, ma sarebbe finalmente giunto il momento di inquadrarlo nella giusta ottica. Ovvero come un buona, a tratti ottima, testimonianza dell’arte narrativa vergata Ronnie James Dio.


ALESSANDRO ARIATTI






 

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