La carriera di John Sloman, al di là della sua adolescenza già devota alla musica in gruppi locali, nonché alla successiva partecipazione su un album da culto come "Firing On All Six" dei Lone Star, è indissolubilmente legata all'esperienza in "Conquest" degli Uriah Heep. Chiamato in fretta e furia dietro al microfono dagli autori di capolavori dell'hard rock come "Look At Yourself" o "Demons And Wizars", in sostituzione del defezionario John Lawton all'indomani di "Fallen Angel", Sloman si trova sulle spalle un fardello forse troppo gravoso. "Conquest" esce nel 1980, e vede una band in procinto del "rompete le righe", visto che si tratta anche dell'ultimo lavoro che può contare sull'apporto di Ken Hensley col suo proverbiale Hammond. Il 33 giri, a parere di chi scrive, non è assolutamente il "disastro" che molti evocano quando si trovano a parlare dell'argomento. Anzi, rispetto alla staticità "di classe" firmata "Innocent Victim" o "Fallen Angel", l'album dimostra un discreto coraggio nell'incanalare il suono del gruppo verso sonorità meno "risapute", in favore di soluzioni più progressive ed addirittura jazz-oriented. Prendete ovviamente la definizione con le pinze, perché sempre di Uriah Heep stiamo parlando. Il problema è il tour successivo, che fa registrare un John Sloman molto in difficoltà quando si tratta di intonare i classici del gruppo, tagliati su misura per frontman dalla timbrica certamente più nerboruta come Byron e Lawton. Troppo "delicata" l'ugola di John per certi cavalli di battaglia on stage, ed il disappunto dei fans nei confronti di questa giravolta stilistica è la tipica goccia che fa traboccare il vaso. Sloman viene messo alla porta in favore di Peter Goalby ("gli Uriah Heep hanno rovinato le mie corde vocali" dirà quest'ultimo diversi anni dopo: bella riconoscenza), e conseguentemente deve fare di necessità virtù. Passano alcuni anni prima che il nostro faccia nuovamente trapelare notizie di sé, sicuramente "bruciato" da una delusione tanto cocente quanto ardua da digerire, che necessita di tempo per suturarne le ferite. Arriviamo al 1989, quando Sloman annuncia la pubblicazione di un suo lavoro solista, licenziato dalla piccola etichetta FM Records, dal metaforico titolo "Disappearances Can Be Deceptive". Stavolta il singer britannico non cade nel trappolone di poter fungere da eventuale "capro espiatorio", ed accentra ogni singolo sforzo relativo al disco nelle proprie mani. A dire il vero, in questo caso sarebbe pressoché impossibile imputare a John alcunché di negativo, perché le dieci canzoni composte sembrano cucite su misura in relazione alle sue caratteristiche ed esigenze artistiche. Un AOR super raffinato, che si tinge spesso di soul (vedi la magnifica "Perfect Strangers": no Deep Purple connections, of course), di pop rock (la graffiante e contagiosa opener "Fooling Myself", non distante dal primo Aldo Nova), persino di funky alla Hughes/Thrall ("Now You Say Goodbye"). Ad accompagnare John, un drappello di musicisti di grande talento e dalla sublime "grazia" negli arrangiamenti, come il chitarrista Alan Murphy, il tastierista Richard Cottle, il batterista John Munro, ed il bassista Pino Palladino. Sloman non rifiuta nemmeno il confronto ravvicinato con il melodic/AOR che sta dominando le classifiche, sia con la succitata "Fooling Myself", sia con la sbarazzina "Breathless", che punta senza troppi "giri di note" al pubblico di Bon Jovi ed affini. Come dicevo poc'anzi, la dinamica soul si conferma altro elemento di non poco conto nella voce di John, e lo dimostrano un paio di slow umbratili e soffusi come "Parting Line" e "Save Us". Forse, causa anche la limitata diffusione commerciale, "Disappearances Can Be Deceptive" non può essere definito come una rivincita nei confronti degli Uriah Heep. Di certo, però, rappresenta la "prova provata" che la voce di Sloman brilla di luce propria. Il fatto che sia ancora in giro ne è la sentenza.
ALESSANDRO ARIATTI
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