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SAXON "DESTINY" (1988)



Dopo il “tuono heavy metal”, il cingolio del “motociclista”, l’adunata “back in ‘79” sotto ghiaccio e neve di “Denim & Leather”, i Saxon di metà anni ’80 non rimangono immuni alle sirene d’Oltreoceano, complice anche il successo planetario degli ex “brothers in arms” della NWOBHM Def Leppard, che con “Pyromania” centrano l’album che tutti vorrebbero annoverare nel proprio carnet. Certo, Joe Elliott e soci hanno un physique du role più adatto per l’immaginario del grande pubblico americano: facce carine che, con un po’ di mascara, ed abbondanti spruzzate di hair spray, li rendono immediatamente soci di baldoria dei Bon Jovi. Per i Saxon la salita si rivela ben più impervia. “Innocence Is No Excuse” (1985), che pure è un gran album con tanto di classici come “Rockin’ Again” o “Broken Heroes”, non attecchisce negli States ed allo stesso tempo scontenta i fans duri e puri del gruppo. Il successivo “Rock The Nations” (1986), ad eccezione delle prime tre songs (title-track, “Battle Cry”, ed il delizioso singolo “Waiting For The Night”), fa ancora peggio. E poco importa se Elton John presta il piano nella demenziale “Party ‘Til You Puke”, il risultato è alquanto deludente, indipendentemente dalla direzione stilistica. Sono proprio le altre sei canzoni del disco a fallire miseramente. Il gruppo si prende qualche mese in più per fare il punto della situazione, per gestire la pressione e, se possibile, comporre del materiale all’altezza del nome. Quando però i Saxon decidono di pubblicare “Ride Like The Wind”, hard rockeggiante cover dell’inno portato al successo dal pacioso Cristopher Cross ad inizio anni ’80, i dubbi o le speranze su un possibile ritorno a sonorità all’arma bianca vengono fugate in un battibaleno. La versione è bellissima, con delle altisonanti tastiere a stemperare l’urto delle chitarre e della voce, tagliente come la lama di un rasoio, di Mister Byford. Sono proprio le keyboards ad ergere al ruolo di protagoniste in molti brani, con la produzione cristallina di Stephan Gallas che avvalla i voleri artistici di una band che non ne vuole assolutamente sapere di essere relegata nel dimenticatoio delle “vecchie glorie”. Persino nelle tracks più decise e cannoneggianti, come “Where The Lightning Strikes” (un vero “cingolato”), “S.O.S.” o “Calm Before The Storm”, il potenziale melodico non viene mai messo in un angolino, come invece era accaduto nel precedente, deficitario “Rock The Nations”. Non poteva certo mancare il papabile hit radiofonico dal titolo “I Can’t Wait Anymore”, posto come sempre al numero 3 della scaletta (successe con “Back On The Streets” da “Innocence Is No Excuse”, con la succitata “Waiting For The Night”, ma accadrà anche in “Solid Ball Of Rock” con “Requiem, We Will Remember”). La trasmutazione di “Destiny” ha comunque del quasi miracoloso, perché “Song For Emma” sembra fuoriuscire da una pomposa opener dei Giuffria, piuttosto che dalla penna dei Saxon: certo, Byff non ha la grazia “made in USA” di un David Glenn Eisley, eppure le trame musicali risultano alquanto omologabili. “We Are Strong” poggia addirittura le fondamenta su un meraviglioso e magniloquente riff di tastiere, se non vado errato caso unico nell’intero catalogo del gruppo: eppure la canzone funziona, accidenti se funziona! Se mi avessero detto all’epoca che, sepolto dietro ad un mare di synth, sarebbe spuntata la sagoma del sommo Gregg (Giuffria, of course), non avrei fatto fatica a crederci. Paradossalmente, il quintetto inglese funziona assai meglio nei segmenti AOR/class dell’album rispetto alle canoniche sventagliate heavy metal come “For Whom The Bell Tolls”, “Jericho Siren” o “Red Alert”. Nonostante l’elevata bontà di cui “Destiny” può fregiarsi, soprattutto in vista di un eventuale “sbarco americano”, le vendite più soddisfacenti provengono in realtà dal Continente, Inghilterra e States esclusi, che in realtà non sembrano nemmeno accorgersi del disco. Il flop commerciale, stavolta, non risparmia i Saxon dalla mannaia del “taglio”: il sodalizio con EMI finisce, ed inizia la collaborazione con Virgin Records: quattro lavori da studio, inaugurati dal tostissimo “Solid Ball Of Rock”. Ma questa è già un’altra storia.


ALESSANDRO ARIATTI 






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