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SNAKES IN PARADISE "SNAKES IN PARADISE" (1994)



Gli anni 90 sono il "buio oltre la siepe" per il melodic hard rock/AOR. Centinaia di gruppi meritevoli cancellati con un colpo di spugna, un patrimonio di capolavori oscurati da qualche camicia di flanella ed alcuni jeans trucidi. Questo è il business, baby: se non ti va bene, sei pregato di cambiare mestiere. Eppure c'è uno zoccolo duro di musicisti che non si arrende al pensiero unico, e rifiuta il "modus imperandi" del genere cosiddetto alternativo, propagandato massivamente da televisioni, giornali (in quel periodo Kerrang! è un'autentica latrina), e da fans che sembrano improvvisamente ipnotizzati. I grossi nomi del decennio precedente si comportano sostanzialmente in due modi: 1) annunciano una lunga pausa sabbatica (vedi Whitesnake) 2) cercano di adeguarsi al new trend con risultati quasi sempre pietosi (chi ha detto Dokken?). Abituati troppo bene per fare buon viso a cattivo gioco, e per esibirsi nei cinema (vedi Motley Crue) invece che nelle consuete arene? Probabilmente è così. Fortunatamente, si tratta di un ragionamento pragmatico che non coinvolge le "nuove leve" del genere, le quali non hanno vissuto sulla loro pelle i fasti dell'ancora recente passato, e non si fanno certo problemi ad accettare contratti con piccole etichette indipendenti dal budget risicato. La logica conseguenza comporta il dover eseguire le proprie performance live in location anguste e striminzite. Long Island ed MTM sono le label che solitamente accolgono i "rifugiati", e proprio per la prima vengono scritturati gli Snakes In Paradise, un sestetto di giovani svedesotti che sul proprio comodino tengono Bibbia e discografia completa dei succitati Whitesnake. In particolare, il vocalist Stefan Berggren sciorina una sicurezza da consumato frontman che, da Mister David Coverdale, sembra aver preso tutto, riccioli biondi inclusi. La formazione è il classico sestetto tipo Serpente Bianco Mark I, con due chitarre (Tomas Jakobsson e Stefan Jonsson) e relative tastiere (Tomas Jansson), ad accompagnare la sezione ritmica (Tomas Thorberg al basso e Peter Pettersen alla batteria). "Snakes In Paradise" non può certo essere immagazzinato in un'ipotetica discografia alla voce "classico", però vi assicuro che in quegli anni di magra, anzi di secca, è tanta roba. Già l'iniziale "Fly Away", con il tappeto di keyboards che sgrava l'impatto delle chitarre, per aprire il varco a linee melodiche dal grande impatto, mette immediatamente le cose in chiaro. Così come l'invitante incipit alla "Ain't Gonna Cry No More" che inaugura "Take Me To The River", trasformando una soffusa ballad in un esercizio di eleganza stilistica. L'album possiede un'uniforme coerenza ben rappresentata da canzoni dotate di notevole appeal, tra easy numbers tipo "Somebody To Blame", ed altri maggiormente "spinti" verso l'hard rock di estrazione anglosassone come nel caso di "Rather Stand The Rain", "The Night Goes On" e "Deep In Your Heart". Dove, è doveroso sottolinearlo, il fantasma Whitesnake appare realmente dietro l'angolo. Sono poi presenti alcune songs assai prossime agli Europe di "Out Of This World" e "Prisoners In Paradise", esattamente nelle suggestioni sprigionate dalla leggiadria di "Book Of My Life", oppure dalla delicatezza onirica di "When The Dream Is Gone". Con "No Easy Way Out", "Love Got Wings" e "Rewrite The Story" si entra nel prestigioso club dell'AOR scandinavo, capeggiato non solo da Joey Tempest e soci, ma anche da altri acts sicuramente meno fortunati, eppure non per questo meno valorosi, quali TNT, Skagarak, Alien, 220 Volt e Treat. E chi li conosce, sa perfettamente a cosa mi riferisco. "How Can You Say" chiude un lavoro che, nel suo piccolo, contribuisce a regalare una sana boccata d'ossigeno ad un genere in perigliosa fase di stasi creativa. Proprio Stefan Beggren verrà scelto come alter ego di Coverdale dagli stessi Bernie Marsden e Micky Moody, quando decideranno, con i Company Of Snakes, di rinverdire i fasti live di pietre miliari come "Ready An' Willing" e "Lovehunter". La loro collaborazione verrà sublimata in un doppio CD dal vivo intitolato "Here They Go Again", ma soprattutto dall'ottimo studio album "Burst The Bubble": provare per credere. 


ALESSANDRO ARIATTI





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