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DEATH SS "BLACK MASS" (1989)



Come un fulmine a ciel sereno, "In Death Of Steve Sylvester" squarcia il velo di mistero sul nome Death SS. Il disco è apprezzato quasi all'unanimità da parte del pubblico metal, tuttavia qualche purista della primissima ora avanza accuse di eccessiva modernizzazione hard'n'heavy rispetto al primevo, leggendario periodo del gruppo, quando il chitarrista Paul Chain era ancora della partita. Come il precedente, anche "Black Mass" esce alla vigilia di Natale, un marketing studiato appositamente per far incazzare l'Italia cattolica, ed in parte ci riesce. Ricordo critiche abbastanza veementi addirittura da parte di lettori di Metal Shock, che rimproveravano a Steve Sylvester quella copertina raffigurante un Cristo dagli occhi indemoniati. Non siamo ancora ai tempi del relativismo religioso attuale, ed indubbiamente l'immagine appare talmente forte che si possono comprendere le persone offese da una simile rappresentazione blasfema. Se ne parli bene o male, l'importante è che se ne parli, recita un famoso proverbio: i Death SS lo fanno proprio e lo sfruttano fino in fondo. Come per il suo predecessore, Sylvester può ancora "saccheggiare" abbondantemente dal polveroso archivio del gruppo, quando Paul Chain faceva parte della "setta". Sono soltanto due i veri inediti ma, ovviamente, per la stragrande maggioranza del pubblico (ad eccezione degli "accoliti" più devoti) si tratta di brani "nuovi", che peraltro possono godere di un suono sicuramente più moderno e consono al valore. Almeno rispetto alle prime, artigianali incisioni.

 

Gli avvicendamenti in formazione portano nuova linfa con l'inserimento del chitarrista Kurt Reynolds (la Morte) al posto di Christian Wise, e del bassista Mark Habey (la Mummia) in sostituzione di Erik Landley. Tuttavia si tratta di dettagli, perché le "maschere" sono sempre le stesse, con le classiche figure dell'horror che vengono completate dallo "Zombie" Kurt Templar (seconda chitarra), dal "Licantropo" Boris Hunter (batteria), ed ovviamente dal leader/Vampiro Steve Sylvester dietro al microfono. Rispetto all'esordio ufficiale, "Black Mass" ha una produzione più "vintage", con gli arpeggi iniziali di "Kings Of Evil" che lasciano immediatamente presagire un'ambientazione leggermente più dark/gothic e meno metal. Impressione confermata, ad esempio, anche da una spettrale "Welcome To My Hell" con intenti artistici in Black Widow-style piuttosto evidenti, sax alla "In Ancient Days" compreso. Il riff scultoreo di "Horrible Eyes" resta tuttora tra i punti più alti dell'intera storia dell'hard'n'heavy italiano, e la delirante interpretazione di Sylvester, piaccia o no, una delle esibizioni più caratterizzanti che si ricordino. E non solo limitatamente al territorio nazionale. L'organo da cattedrale (sconsacrata) che apre "Cursed Mama" è l'evocativo preludio allo sfrenato punk'n'roll che ne consegue, mentre "Buried Alive" rappresenta un'inespugnabile roccaforte metallica ai confini col doom ante litteram. Il ripescaggio del passato si conclude con la ballad "In The Darkness", in cui le tastiere di Aldo Polverari si fondono alla voce di Sylvester in una sinergica sinfonia di morte. Tra le nuove composizioni, "Devil's Rage" è forse l'unico punto debole del 33 giri, soprattutto perché i Death SS si cimentano in uno speed davvero troppo scontato per i loro "standard". Ma ci pensa la title-track a congedare il pubblico in modo teatrale, con la sua rappresentazione narrata di una vera e propria Messa Nera, esperienza sonora tra tastiere di accompagnamento, preghiere "rovesciate" e saxofoni lancinanti, che vergano in calce la voglia di osare di un gruppo mai banale, mai tra le righe.

"Black Mass" ottiene un lusinghiero successo, ma la Metal Master è presto destinata al fallimento, costringendo Sylvester e soci a prendersi un paio d'anni sabbatici, alla ricerca di una nuova casa discografica e di un produttore di fama internazionale. Circostanze che si verificheranno puntualmente con la pubblicazione di "Heavy Demons" nel 1991.


ALESSANDRO ARIATTI





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