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POISON "LOOK WHAT THE CAT DRAGGED IN" (1986)



Non ci sono mezze misure quando si parla di Poison. O li ami alla follia, o li odi fino al disprezzo. Registrato in pochi giorni ai Music Grinder Studios sotto la supervisione del produttore Ric Browder, "Look What The Cat Dragged In" irrompe sugli scaffali dei negozi di dischi con tutta la leggerezza e spensieratezza che si poteva respirare in quegli anni.

Quando la massima preoccupazione era la cattiva riuscita di una festa casalinga o la cancellazione di un appuntamento a cena in compagnia.

Capisco che per i millennials, impegnati tra mille social inutili e bombardati da fake news da mattina a sera, sia un quadro della situazione difficile da comprendere.
Pazienza, se è vero che tutti abbiamo diritto ad una fetta di felicità, gli anni 80 ce l'hanno elargita a piene mani. I Poison sono l'essenza di questa irrefrenabile voglia di vivere, quando qualunque cosa sembrava a portata di mano, ed il "futuro" era colorato a pastello.
Quattro scavezzacollo, non esattamente dei virtuosi dello strumento, si prendono la loro chance e la fanno diventare un sogno ad occhi aperti. Il riferimento principale, sia musicale che visivo, può essere individuato nei Motley Crue di "Theatre Of Pain", col vocalist Brett Michaels che si ispira candidamente a Vince Neil, mentre le altre quattro facce mascarate ed "ammiccanti" sulla copertina rispondono ai nomi di CC De Ville (chitarra), Bobby Dall (basso) e Rikki Rockett (batteria). Come dite? Sembrano dei testimonial "gender fluid"? Signori cari, noi "Eighters" eravamo avanti, molto avanti: e mettetevela via, non avete inventato un beneamato cazzo (mi scuso per il francesismo) col vostro nuovo linguaggio da quattro soldi. Tutta roba trita e ritrita, che abbiamo accettato tranquillamente, e con la quale abbiamo, altrettanto tranquillamente, convissuto cinque decadi fa.
Gli anni 80 hanno glorificato un Freddie Mercury od un Boy George senza mai nemmeno chiedere da che "parte della barricata" sessuale si trovassero, proprio perché non esistevano barricate. Quelle ve le hanno messe nel cervello, e quando lo capirete sarà sempre troppo tardi.

Nel caso in questione, e tornando al lato musicale, i Poison aumentano decisamente il dosaggio pop dei colleghi di settore, con melodie da teenager che vanno a stemperare i bastardi rock'n'roll riff di mister De Ville. Il singolo "Talk Dirty To Me", ad esempio, è un magistrale esempio di intrattenimento "a buon mercato", con quelle linee vocali che vanno ad incastrarsi alla perfezione fino allo scatenato ritornello. A dire il vero, il brano è talmente "contagioso" da sembrare un unico, lungo refrain, viatico perfetto per accendere serate dall'elevato tasso alcolico. "I Won't Forget You" suona come immancabile momento "slow" della serata, quando le dolci note della musica prendevano il sopravvento e consentivano un "tete a tete" più intimo e meno caciarone. Altro singolo di successo è "I Want Action", che però non regala solo soddisfazioni ai Poison, ma anche qualche grattacapo: gli Easy Action di Kee Marcello (futuro chitarrista degli Europe) intentano infatti causa al gruppo, per plagio nei confronti della loro "We Go Rocking". E la vincono pure, con un bel gruzzoletto come risarcimento.

Se l'iniziale "Cry Tough" gioca su un vincente connubio tra urgenza e melodia, "Play Dirty" e "Want Some, Need Some" innescano un potente hard rock sulla scia dei Kiss "non mascherati", quando Paul Stanley e Gene Simmons decisero di abbracciare la causa dell'hair metal. La title-track sciorina glamour & fun, anticipando in qualche modo il più raffinato approccio di "Look But You Can't Touch" dal disco successivo "Open Up And Say Aahh", quando i Poison sono ormai diventati una delle "next big thing" del Sunset Boulevard. Quattro milioni di copie vendute rappresentano infatti un ottimo biglietto da visita per degli "absolute beginners", tanto che i seguenti due 33 giri, con adeguate promozioni e produzioni pantagrueliche, ne vendono complessivamente una dozzina. Dopo "Flesh & Blood" si esaurisce la parabola verso le stelle dei Poison, che nel 1993 tentano la carta del fenomeno Richie Kotzen al posto di Deville, perso in problemi di dipendenze varie. Nonostante una qualità ancora eccellente, l'album "Native Tongue" non ripete neppure minimamente le cifre dei suoi predecessori, anche a causa di un mercato che sembra aver dimenticato, temporaneamente, gli "eroi" degli anni 80.

E sottolineo temporaneamente: buon ritorno al passato.
La "cancel culture"?
Mettetevela prosaicamente nel culo. "Hit it, CC"!


ALESSANDRO ARIATTI 







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