Passa ai contenuti principali

SHY "EXCESS ALL AREAS" (1987)



Sono anni ruggenti, anni di passioni veraci: la musica rock si vive sulla propria pelle, le sette note pompano direttamente nel sangue e massaggiano il cuore, a volte con dolcezza, altre con la grazia di un defibrillatore.


La razionalizzazione è un processo analitico che avviene solo successivamente, come è giusto che sia. Praticamente l’opposto di ciò che accade oggi. Ad ognuno viene concessa la propria chance, a volte più di una, le case discografiche hanno tanti soldi da investire, tuttavia l’opulenza economica viene spesso affiancata da una certosina ricerca del talento. Accade così che una pressochè sconosciuta band britannica di nome Shy (anche il nome non evoca particolari sussulti di notorietà) venga presa sottobraccio dalla potentissima RCA/BMG, decisissima a fare di loro il prossimo “big bang” europeo. Certo, il gruppo era già stato scritturato per il secondo album “Brave The Storm” (1985), un lavoro orientato verso il rock pomposo d’Oltreoceano, ma che presenta diverse ingenuità da smussare, impurità da filtrare, ed una fase di scrittura da sgrezzare. Il pacchetto intero viene messo nelle mani di implacabili produttori (l’infallibile Neil Kernon) ed un manipolo di compositori che aiuta il quintetto a mettere nel mirino i maggiori esponenti del genere di pertinenza. “Excess All Areas” è da ascrivere a pieno diritto tra i più grandi capolavori dell’AOR europeo: dieci canzoni perfette, non un riff fuori posto, non un’armonia che non vada dritto al punto, non un coro che non sia più che memorabile.

Si parlava poc’anzi di “partners in crime” in fase di songwriting, e bisogna dire che nell’anno domini 1987 si fa fatica a trovare penne più ispirate di quella di Michael Bolton (che firma l’opener “Emergency” assieme a Duane Hitchens), oppure di un Don Dokken che appone il proprio sigillo su “Break Down The Walls” (e si sente!).
Bisogna inoltre sottolineare che gli Shy possono contare su uno dei singer più peculiari che il settore abbia mai sperimentato: Tony Mills è infatti una sorta di Geoff Tate “prestato” al melodic rock, ed ovviamente un range vocale di tale ampiezza fa tutta la differenza di questo mondo. Il chitarrista Steve Harris, solo omonimo del ben più noto Steve di casa Iron Maiden, è un elegante chitarrista, il tastierista Pat McKenna un fine cesellatore di arrangiamenti, risulta però evidente che la “primadonna” della situazione sia lui, il succitato frontman. Le sue peripezie dietro al microfono sono roba da stropicciarsi gli occhi e “sturare” le orecchie per lo stupore: lo dimostrano i saliscendi di “Can’t Fight The Nights”, la grazia del singolo “Young Hearts” con le sue reminiscenze Journey, l’urgenza di “Devil Woman” (cover assai personalizzata del classico vergato Cliff Richard).

Anche quando le luci scendono, le atmosfere si fanno ovattate, e vengono immerse in un sontuoso habitat di velluto, come nel caso di “Just Love Me” o “When The Love Is Over”, il fantasma dell’anonimato viene scacciato proprio dall’interpretazione sopra le righe di Mills. “Under Fire” suona come la traccia più vicina al rock magniloquente di “Brave The Storm”, evitandone tuttavia le ridondanze, mentre “Talk To Me” e la conclusiva “Telephone” certificano brillantezza in fase compositiva e grande classe in quella esecutiva.

Se la famosa regola del “terzo album” (capolavoro o flop) avesse un significato compiuto, pochi altri potrebbero aspirare a fungere da testimone come “Excess All Areas”. Peccato che il successivo “Misspent Youth” distruggerà in un lampo tutto ciò che gli Shy avevano costruito, con la sua produzione scialba ed un lotto di canzoni party-metal incredibilmente banali, per le quali nemmeno la straordinaria ugola di Mills riuscirà a realizzare il miracolo.


ALESSANDRO ARIATTI 






Commenti

Post popolari in questo blog

INTERVISTA A BEPPE RIVA

C'è stato un tempo in cui le riviste musicali hanno rappresentato un significativo fenomeno di formazione personale e culturale, ed in cui la definizione "giornalista" non era affatto un termine usurpato. Anzi, restando nell'ambito delle sette note, c'è una persona che, più di tutte, ha esercitato un impatto decisivo. Sia nell'indirizzo degli ascolti che successivamente, almeno per quanto mi riguarda, nel ruolo di scribacchino. Il suo nome è Beppe Riva. E direi che non serve aggiungere altro. La parola al Maestro. Ciao Beppe. Innanzitutto grazie di aver accettato l'invito per questa chiacchierata. Per me, che ti seguo dai tempi degli inserti Hard'n'Heavy di Rockerilla, è un vero onore. Inizierei però dal presente: cosa ha spinto te e l'amico/collega storico Giancarlo Trombetti ad aprire www.rockaroundtheblog.it? Ciao Alessandro, grazie a te delle belle parole. L'ipotesi del Blog era in discussione da tempo; l'intento era quello di ritag...

WARHORSE "RED SEA" (1972)

Sul blog abbiamo già parlato del primo, omonimo album dei Warhorse, band nata dall'ex bassista dei Deep Purple, Nick Simper. Il loro debutto, datato 1970, esce in un periodo abbastanza particolare dove, il beat prima ed il flower power poi, si vedono brutalmente scalzati da un suono ben più burrascoso e tumultuoso. Il succitato Simper, pur avendo fatto parte "soltanto" degli albori (i primi 3 dischi) dei Deep Purple, vede la sua ex band spiccare letteralmente il volo con il rivoluzionario "In Rock", contornato a propria volta da altre perniciose realtà quali Led Zeppelin o Black Sabbath. "Warhorse" suonava esattamente come il giusto mix tra l'hard rock "Hammond-driven" di Blackmore e soci, e le visioni dark di Toni Iommi. Il 33 giri, nonostante l'eccellente qualità di tracce tipo "Vulture Blood", "Ritual" e "Woman Of The Devil", non vende molto. Anzi, contribuisce al rimpianto di Simper di essere stato sc...

LABYRINTH: "IN THE VANISHING ECHOES OF GOODBYE" (2025)

Se quello che stiamo vivendo quotidianamente, ormai da una ventina d'anni, non fosse un fottutissimo "absurd circus"; se esistesse una logica a guidare le scelte della mente umana, divenuta nel frattempo "umanoide"; se insomma non fossimo nel bel mezzo di quel "Pandemonio" anticipato dai Celtic Frost quasi 40 anni fa, i Labyrinth dovrebbero stare sul tetto del mondo metal. Nessuna band del pianeta, tra quelle dedite al power & dintorni, può infatti vantare, neppure lontanamente, una media qualitativa paragonabile ai nostri valorosi alfieri dell'hard'n'heavy. Certo, hanno vissuto il loro momento di fulgore internazionale con "Return To Heaven Denied" (1998), della cui onda lunga ha beneficiato pure il discusso "Sons Of Thunder" (2000) che, ricordiamolo ai non presenti oppure ai finti smemorati, raggiunse la 25esima posizione della classifica italiana. Poi la "festa" terminò, non in senso discografico, perché...