Passa ai contenuti principali

THE CULT "ELECTRIC" (1987)




Dopo aver deliziato le platee del post punk, del gothic rock e della new wave, prima con "Dreamtime", ma soprattutto con "Love", i The Cult sconvolgono letteralmente il mondo musicale. Via i vestiti svolazzanti di "Rain", entrano in scena giubbotti di cuoio nero e cartuccere, al diavolo i colori psichedelici di "Nirvana", adesso regna il caos, il nero che più nero non si può. "Electric" suona come un autentico shock; poche volte si era assistito, almeno fino ad allora, ad un cambio di direzione stilistica così radicale e repentino, specie se ad effettuarlo è un gruppo con un seguito di tutto rispetto. Eppure Ian Astbury e Billy Duffy, assistiti dal bassista Jamie Stewart e dal drummer Les Warner, sembrano dediti al puro hard rock da sempre, come se per loro fosse la cosa più facile e naturale di questo mondo. Prodotto dal guru Rick Rubin, reduce dal bagno di sangue con gli Slayer di "Reign In Blood", il 33 giri viene presentato in una elegante copertina gatefold, con immagini che definire "guerrafondaie" pare pure poco. Sono probabilmente necessarie lunghe sedute di analisi per far riprendere dal trauma i vecchi fans del gruppo, convinti di avere individuato nei The Cult una sorta di protesi del movimento flower power. Come poter digerire un simile voltafaccia, di sostanza e di immagine? Pressoché impossibile. Inaugurato dal riff tetragono di "Wild Flower", da una ritmica pulsante e da linee vocali al vetriolo, "Electric" parla il "vangelo" degli AC/DC e dei Led Zeppelin, azzerando ogni riferimento verso il proprio passato, ed aggiornando lo storico suono hard rock degli anni '70 al pragmatismo ed all'estetica della decade in corso. Ne sono testimoni l'incendiaria "Lil' Devil", ma anche il primo singolo "Love Removal Machine", con quel giro di chitarra che sembra copiato pari pari da "You Shook Me All Night Long" degli AC/DC. Billy Duffy non è certo un fenomeno di tecnicismi con la sei corde, così come Ian Astbury non può assolutamente competere con il range vocale dei più importanti esponenti del genere, tuttavia l'alchimia sprigionata dal duo è qualcosa di magico ed ancestrale. Il batterista Les Warner picchia come un ossesso in "Bad Fun", eppure trova anche il groove giusto per accompagnare clamorosi trip Zeppeliniani a titolo "Peace Dog" ed "Aphrodisiac Jacket". La fluidità di songwriting non intacca mai la bocca di fuoco di una produzione mostruosa, che sputa fuori cattiveria a profusione dagli speaker dello stereo, vedi la granitica "King Contrary Man", oppure la martellante "Electric Ocean", ulteriore traccia molto AC/DC oriented. La stessa cover scelta per l'occasione, ovvero "Born To Be Wild" degli Steppenwolf, risente della vitaminica "cura Rick Rubin", una scelta certamente avallata con soddisfazione convinta da parte dei due "capi" della situazione. "Electric" non fatica a conquistare le classifiche di mezzo mondo, l'hard rock ed il metal imperversano in lungo ed in largo nelle classifiche, ed il pubblico del settore, solitamente sempre attento alla qualità, non può certo rimanere impassibile ad un simile lotto di canzoni. È così che i The Cult, da esponenti della new wave, si ritrovano a primeggiare in un mondo che, fino a pochi anni prima, li vedeva come fumo negli occhi. Il clamore suscitato dal disco è infatti talmente rimbombante da suscitare l'attenzione dei maggiori produttori dedicati all'hair metal da classifica dell'epoca. Primo su tutti Bob Rock, al quale verrà affidato il non facile compito di dare voce alla replica di questa autentica bomba ad orologeria. Il successivo lavoro "Sonic Temple" aggiusterà il tiro verso un approccio più mainstream e meno selvaggio, le tastiere inizieranno a fare timido capolino, le canzoni verranno "levigate" e smussate rispetto alla furia primordiale incanalata in "Electric". Tuttavia, se i The Cult guadagneranno credenziali sempre più referenziate nel mondo hard’n’heavy, non bisogna dimenticare che il “peccato originale” parte da questi solchi.


ALESSANDRO ARIATTI 







Commenti

Post popolari in questo blog

INTERVISTA A BEPPE RIVA

C'è stato un tempo in cui le riviste musicali hanno rappresentato un significativo fenomeno di formazione personale e culturale, ed in cui la definizione "giornalista" non era affatto un termine usurpato. Anzi, restando nell'ambito delle sette note, c'è una persona che, più di tutte, ha esercitato un impatto decisivo. Sia nell'indirizzo degli ascolti che successivamente, almeno per quanto mi riguarda, nel ruolo di scribacchino. Il suo nome è Beppe Riva. E direi che non serve aggiungere altro. La parola al Maestro. Ciao Beppe. Innanzitutto grazie di aver accettato l'invito per questa chiacchierata. Per me, che ti seguo dai tempi degli inserti Hard'n'Heavy di Rockerilla, è un vero onore. Inizierei però dal presente: cosa ha spinto te e l'amico/collega storico Giancarlo Trombetti ad aprire www.rockaroundtheblog.it? Ciao Alessandro, grazie a te delle belle parole. L'ipotesi del Blog era in discussione da tempo; l'intento era quello di ritag...

WARHORSE "RED SEA" (1972)

Sul blog abbiamo già parlato del primo, omonimo album dei Warhorse, band nata dall'ex bassista dei Deep Purple, Nick Simper. Il loro debutto, datato 1970, esce in un periodo abbastanza particolare dove, il beat prima ed il flower power poi, si vedono brutalmente scalzati da un suono ben più burrascoso e tumultuoso. Il succitato Simper, pur avendo fatto parte "soltanto" degli albori (i primi 3 dischi) dei Deep Purple, vede la sua ex band spiccare letteralmente il volo con il rivoluzionario "In Rock", contornato a propria volta da altre perniciose realtà quali Led Zeppelin o Black Sabbath. "Warhorse" suonava esattamente come il giusto mix tra l'hard rock "Hammond-driven" di Blackmore e soci, e le visioni dark di Toni Iommi. Il 33 giri, nonostante l'eccellente qualità di tracce tipo "Vulture Blood", "Ritual" e "Woman Of The Devil", non vende molto. Anzi, contribuisce al rimpianto di Simper di essere stato sc...

LABYRINTH: "IN THE VANISHING ECHOES OF GOODBYE" (2025)

Se quello che stiamo vivendo quotidianamente, ormai da una ventina d'anni, non fosse un fottutissimo "absurd circus"; se esistesse una logica a guidare le scelte della mente umana, divenuta nel frattempo "umanoide"; se insomma non fossimo nel bel mezzo di quel "Pandemonio" anticipato dai Celtic Frost quasi 40 anni fa, i Labyrinth dovrebbero stare sul tetto del mondo metal. Nessuna band del pianeta, tra quelle dedite al power & dintorni, può infatti vantare, neppure lontanamente, una media qualitativa paragonabile ai nostri valorosi alfieri dell'hard'n'heavy. Certo, hanno vissuto il loro momento di fulgore internazionale con "Return To Heaven Denied" (1998), della cui onda lunga ha beneficiato pure il discusso "Sons Of Thunder" (2000) che, ricordiamolo ai non presenti oppure ai finti smemorati, raggiunse la 25esima posizione della classifica italiana. Poi la "festa" terminò, non in senso discografico, perché...