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THE CULT "SONIC TEMPLE" (1989)



Se "Electric" ha rappresentato l'ingresso in pompa magna dei The Cult nel mondo dell'hard rock, conquistando l'affetto di un pubblico fino ad allora ostile, l'album successivo è chiamato al difficile compito di non farne rimpiangere le meraviglie. Difficile, onestamente, sperare in una replica altrettanto veemente, ugualmente "violenta" in termini di selvaggio "high voltage"; più facile prevedere che Ian Astbury e Bill Duffy, una volta entrati in quella scena sfondando direttamente la porta, tentino la carta dell'establishment. Non a caso, per la produzione di "Sonic Temple", viene chiamato il signor Bob Rock, alias uno dei maghi della consolle più ricercati nella seconda metà del decennio, che troverà imperitura gloria e dollaroni a fiumi un paio d'anni dopo, grazie al suo lavoro sul "Black Album" dei Metallica.

La formazione resta "a quattro", con l'unica eccezione, rispetto ad "Electric", del batterista Mickey Curry (ex Little Angels) che prende il posto di Les Warner. Non amo utilizzare l'aggettivo "maturo" quando si tratta di musica, e questo per due motivi: il primo perché spesso è un sinonimo di "si sono ammosciati", il secondo perché significherebbe che, quanto espresso precedentemente, sarebbe da considerare poco più che monnezza. Nulla di tutto questo, almeno nel caso dei The Cult, eppure anche sforzandomi, non riesco ad individuare una parola che meglio sintetizzi lo "scatto" stilistico tra "Electric" e "Sonic Temple". La sostanza è molta, moltissima: un hard rock tosto ed adulto, che pesca a piene mani dal glorioso passato degli anni 70 e lo riveste di luce moderna. "Sun King", con quell'inizio vagamente psichedelico, potrebbe trarre in inganno, ma è solo un attimo: il riff di Duffy è dirompente, il drumming di Curry un macigno, ed il cantato di Astbury richiama i guru più influenti del settore. Meno AC/DC e più Led Zeppelin, se volessimo proprio descrivere "Sonic Temple" in poche parole: un concetto forse semplicistico, ma che trova conferma nella mastodontica "Soul Asylum", ennesima digressione sulla via del "Kashmir". Il singolo "Fire Woman" è intenso hard rock, ed Astbury, pur non possedendo un'estensione paragonabile a certi frontman "nati e cresciuti" nel genere, sciorina una impressionante tempra da icona maledetta. "American Horse" avvalla l'impressione di avere tra le mani un disco più studiato, capace di iniettare la liquidità lisergica di "Love" nelle possenti fasce muscolari di "Electric". Addirittura ci si imbatte in una ballad dalle atmosfere oniriche come "Edie (Ciao Baby)", per passare senza traumi ad una "Sweet Soul Sister" pesantemente modellata da tastiere vintage ed incentrata su un refrain ad effetto istantaneo. Sia la prima che la seconda, non casualmente, verranno pubblicate come singoli/videoclip dopo la già menzionata "Fire Woman".
La partecipazione ai cori di "New York City" da parte di Iggy Pop rappresenta la certificazione definitiva sul curriculum hard rock del gruppo, che preme forte sul groove anche nell'accattivante "Automatic Blues". E non importa se lo "scheletro" portante del brano citi apertamente "Black Dog" dei soliti Led Zeppelin; la strada maestra è stata solcata, e la coppia Astbury/Duffy ha intenzione di percorrerla fino in fondo. "Soldier Blue" è un altro pezzo da novanta dell'album, con quel tambureggiare guerresco che anticipa una bellissima armonia di chitarra di Bill, ed un cantato di Ian che sembra inneggiare alla libertà. Il drumming di Curry suona preciso come un metronomo, ed è probabilmente in questo tipo di canzoni che si capisce del tutto il suo ingresso in formazione a discapito di Warner. Del resto, Bob Rock è conosciuto per la cura maniacale dei dettagli, almeno fino a quell'aborto mancato di "St.Anger", ed ogni tassello del puzzle deve rientrare nei suoi parametri.

"Sonic Temple" ottiene riconoscimenti unanimi da critica e pubblico, che lo gratifica con vendite talmente soddisfacenti da piazzarlo nella Top Ten delle classifiche americane. Esauritosi il fattore sorpresa con "Electric", The Cult dimostrano coi fatti di rifiutare il ruolo di "meteora" del firmamento hard'n'heavy, per candidarsi con forza a quello di stella polare.


ALESSANDRO ARIATTI







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