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JUDAS PRIEST "RAM IT DOWN" (1988)



Da "difensori" a "traditori" della fede, il passo è breve. Basta addomesticare il sound per un album, ed i fans iniziano a storcere il naso. L'hanno provato sulla propria pelle i
 Judas Priest all'indomani dell'uscita di "Turbo", un disco per certi versi spettacolare, ma che strizzava troppo palesemente l'occhiolino verso l'american hard rock tanto in voga nel periodo. Il tempo ha smussato gli animi, ed oggi molti considerano quel lavoro per ciò che è in realtà: un tentativo, spesso ben riuscito, di accodarsi allo sgargiante metal da classifica di Ratt e Quiet Riot, giusto per citare alcuni tra i nomi più rappresentativi di un'epoca irripetibile.

"Dimenticate 'Turbo', il prossimo LP sarà il nostro ritorno allo stile di 'Screaming For Vengeance' e 'Defenders Of The Faith': sarete molto soddisfatti". Queste le parole del gruppo, che inizia a sentire puzza di bruciato tra gli umori dei propri fedeli fans. E se è vero che "Turbo" ha portato i Judas Priest a calcare i palchi USA per un lungo periodo, è altrettanto vero che i colossi britannici non si avvicinano nemmeno lontanamente alle cifre delle posizioni top di Billboard. Ovviamente un milione di copie nel solo territorio statunitense non sono certo una bazzecola, ed oggi si tratterebbe di una quotazione impensabile per chiunque (o quasi), ma gli anni 80 non possono essere paragonati a nulla. Almeno in termini di consensi commerciali. "Ram It Down" esce a metà maggio 1988, accompagnato da un battage pubblicitario non da scherzo, che preannuncia appunto il sontuoso come-back di Halford e soci allo stile che ha esaltato le platee heavy metal nella prima metà della decade.

Tutto vero? Manco per niente.
Se è vero che il disco aumenta il tonnellaggio voltaico, a partire da una title-track clamorosa, degna erede di "Freewheel Burning", appare altrettanto lampante come il quintetto non abbia alcuna intenzione di rinunciare a quello sfarzo offerto dalla tecnologia di quegli anni. Un esempio? La batteria di Dave Holland picchia forte, eppure il sospetto che i Judas Priest si avvalgano di una drum machine, anziché accontentarsi di arti umani, resta più che legittimo. "Ram It Down" è probabilmente l'album "tamarro" per eccellenza della band, con il robotico incedere di canzoni come "Heavy Metal" e "Come And Get It" a menare piacevolmente le danze. E non risponde a realtà nemmeno la rinuncia a determinate soluzioni. "sintetiche", che avevano gettato nello sconforto i vecchi aficionados di "Screaming For Vengeance" o "Defenders Of The Faith", perchè l'epica "Blood Red Skies" replica abbastanza fedelmente l'algida imponenza "transumana" di "Out In The Cold", al netto di una ritmica più urgente e claustrofobica.

Curiosa la scelta di optare a favore di una cover come singolo trainante, ma "Johnny B. Goode" è una canzone talmente iconica nella tradizione popolare americana, che si possono capire le motivazioni. I Judas Priest risolvono la scottante pratica con bello stile formale, personalizzandola a proprio uso e consumo. "Love Zone" e (soprattutto) "Love You To Death" alzano la cifra groove, anticipando di qualche anno quelle che sarebbero diventate le tendenze artistiche da parte di Rob Halford dopo lo tsunami Pantera, e che verranno successivamente portate al pieno compimento con i suoi Fight. "Hard As Iron" è talmente "densa" da apparire quasi finta, ma non convincono del tutto neppure le retoriche a buon mercato di "I'm A Rocker" e "Monsters Of Rock", non tanto per un discorso di autoreferenzialità, quanto per un appiattimento di contenuti.

Nonostante il tanto strombazzato ritorno al metal puro, "Ram It Down" vende esattamente la metà di "Turbo", costringendo i Judas Priest a fare i conti con sé stessi. La pausa di riflessione dura due anni e mezzo, perché a settembre 1990 uscirà niente meno che "Painkiller", con un nuovo batterista (Scott Travis) ed un nuovo produttore (Chris Tsangaridies) a pompare linfa vitale nelle vene creative del gruppo.


ALESSANDRO ARIATTI






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