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AXEL RUDI PELL "ETERNAL PRISONER" (1992)



Dopo la relativamente lunga esperienza con gli
 Steeler (da non confondersi con l'omonima band di Ron Keel ed Yngwie Malmsteen), il chitarrista Axel Rudi Pell decide di mettersi in proprio. Niente più compromessi, nessun patto di non belligeranza sulla direzione stilistica da intraprendere, soltanto una completa autogestione da condividere nelle interazioni esecutive con i gregari scelti, volta per volta, a seconda dell'album in questione. Il primo "Wild Obsession" parla ancora il verbo dell'ex gruppo di Pell, in virtù di un sound class metal molto efficace ("Call Her Princess", una fucilata) ma forse un pò stereotipato.

Con la sostituzione del cantante Charlie Huhn, già frontman dei Victory ed ancora prima chitarrista ritmico e corista di Ted Nugent, in favore del ben più talentuoso Rob Rock, il biondo chitarrista tedesco registra "Nasty Reputation", che già lascia intravedere spiragli artistici più suggestivi e personali.

La svolta definitiva avviene tuttavia un paio di anni dopo, quando Axel contatta lo straordinario Jeff Scott Soto per dare vita al suo terzo disco da solista. "Eternal Prisoner" è uno dei "dischi della vita" che ogni artista vorrebbe augurarsi di comporre, dalle iniziali cannonate speed di "Streets Of Fire", sulle quali Jeff, Axel e Jorg Michael (ebbene sì, sull'album c'è pure lui) si avventano come delle belve, all'elegante suono cromato di "Long Time", una track che persino i Dokken dei tempi migliori sarebbero stati orgogliosi di scrivere.
Le tastiere di Karl Raglewski diventano protagoniste nel mid tempo della title-track, fortemente debitrice dei Rainbow pre-svolta americana, nonché dei Black Sabbath targati Ronnie James Dio, ma anche del troppo sottovalutato (non dai veri intenditori) periodo con Tony Martin al timone di comando vocale.
Soto è un fenomeno, una forza della natura in ogni situazione stilistica, ovviamente anche nella "velvet" ballad "Your Life (Not Close Enough To Paradise)", che ne esalta le doti di ammaliatore AOR. Col riff "stop & go" di "Wheels Rolling On" e le sue conseguenti linee melodiche a presa rapida, si torna a parlare il verbo dell'hard cotonato di fine/metà anni 80, un mood che prosegue, anche se in maniera differente, con una "Sweet Lil' Suzie" in qualche modo assimilabile all'approccio dei Tesla dell'indimenticabile (ed indimenticato) "Mechanical Resonance". Il songwriting di Axel è ancora ben lontano da una completa omologazione alla "versione tedesca" di Ritchie Blackmore, svolta che verrà intrapresa con fermissima intransigenza dopo l'ingresso nella band di Johnny Gioeli. Ed anche se il chitarrista odia, per sua stessa ammissione, la succitata "Sweet Lil' Suzie", personalmente non posso che sottolinearne l’altissima qualità.

A proposito di Ritchie Blackmore e della sua ispirazione, eccolo fare prepotentemente capolino in "Dreams Of Passion", quasi un omaggio a quella "Snowman" che splendeva come ghiaccio riflesso dal sole invernale su "Bent Out Of Shape" dei Rainbow.
Le muscolari dimostrazioni di forza a titolo "Shoot Her To The Moon" e "Ride The Bullet" chiudono un album perfetto, in grado di mettere d'accordo più di una fascia di pubblico.
Anche perché, come ben sappiamo, quando la musica si eleva a certi livelli di eccellenza, non c'è barriera o paraocchi che tenga.


ALESSANDRO ARIATTI







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