Si accusava Axel Rudi Pell di "immobilismo artistico" già verso il finale degli anni 90. È trascorso qualcosa come un quarto di secolo: allora c'erano i magazine ed oggi i "portali", eppure il chitarrista tedesco resta sempre fermo lì, con i piedi ben piantati e la capa più tosta che mai. I suoi dischi continuano a confermarsi dei best seller nella natìa Germania, nonostante un mercato in implosione, ed i tour fioccano di date. Almeno in terra teutonica. E allora come la mettiamo, signori? Puntualizziamo un paio di cose, evidentemente sotto gli occhi di tutti. 1) Axel è fermo, musicalmente parlando agli anni 70/80? Sicuramente. 2) Chi non cambia mai copione stilistico è soggetto ad altalene di dischi più o meno riusciti? Credo sia innegabile. Allora bisognerebbe avere l'umiltà di evitare di comportarsi da saccenti, ed analizzare uscita per uscita, al di là di quanto affermato sopra. Faccio sinceramente fatica a considerare opinioni serie quelle di chi, ad esempio, mette sullo stesso piano un "Game Of Sins" (discreto e nulla più) ed un "Lost XXIII" (tra i migliori del nuovo millennio), un "Sign Of The Times" ed un "Knights Call". E questo trend dimostra un'altra cosa: non esiste più nemmeno la capacità critica di riconoscere la qualità compositiva, forse a causa della penuria di grandi canzoni che offusca le menti. Tutto questo discorso per dire cosa? Semplicemente che non se ne può più di leggere robe tipo "album col pilota automatico" e banalità simili. Sia ben chiaro: "Risen Symbol" non fa assolutamente parte delle eccellenze firmate Axel Rudi Pell 2.0. Non perché "fa sempre le stesse cose", bensì per un parziale appannamento nel songwriting che lo rende nettamente inferiore al suo predecessore. Il consueto brano a tutto gas, dopo l'irrinunciabile intro, viene battezzato "Forever Strong" ma, nonostante il titolo altisonante, siamo ben lontani dalle migliori sfuriate "apripista" del passato. Decisamente meglio i mid tempo melodici, tipo "Guardian Angel" e "Darkest Hour", nelle quali viene sfruttato "l'Hardline factor" del fedelissimo Johnny Gioeli. Molto interessante la rielaborazione di un'icona come "Immigrant Song" (Led Zeppelin), che muta l'ambientazione vichinga dell'originale in una sorta di danza orientaleggiante. Quasi un preludio ad "Ankhara", col suo incedere epico che viene spezzato solo sul finale da una repentina accelerazione. "Crying In Pain" è la ballad di turno, un'esercizio stilistico nel quale Axel conta ancora ben pochi eguali: eppure siamo lontani dall'eccellenza di "Gone With The Wind", una traccia che aveva acceso di struggente malinconia "Lost XXIII". Anche l'assolo del chitarrista teutonico risulta un pò di maniera, dato che non riesce assolutamente a replicarne l'insostenibile intensità. "Hell's On Fire" staziona su un robusto class metal tutto sommato funzionale, con un refrain ben costruito e sostenuto da un Gioeli sempre in palla. Se "Right On Track" suscita qualche sbadiglio per una linea melodica davvero troppo standard, "Taken By Storm" chiude in bellezza grazie alla "strategia" Kashmir-esque nettamente nelle corde di Pell. Appuntamento fra un paio d'anni, sperando nell'ennesima impennata di una carriera senza fine.
ALESSANDRO ARIATTI
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