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BAD COMPANY "FAME AND FORTUNE" (1986)



Il 1986 è l’anno dei cambiamenti, anche dei gruppi più storici e consolidati. Iniziano i Van Halen, che con “5150” spezzano il silenzio con l’uragano Sammy Hagar al posto di David Lee Roth, incanalando il proprio sound verso coordinate decisamente più approcciabili dal grande pubblico. Tocca quindi ai Judas Priest di “Turbo”, con quelle chitarre sintetizzate che fanno gridare allo scandalo più di un purista. Anche gli Iron Maiden ne ripetono l’azzardo in “Somewhere In Time”, pur restando maggiormente ancorati al loro trademark.

Nulla di più prevedibile che i Bad Company, separatisi dal loro frontman Paul Rodgers, tentino la carta dello “sfondamento” commerciale, già peraltro toccato con mano grazie ai loro magistrali album pubblicati nella decade precedente ("Straight Shooter" su tutti).

Ovviamente gli anni '70 sono il periodo dell’hard rock più viscerale, mentre gli eighties necessitano di alcune accortezze che possano rendere lo stile del gruppo attuale e fruibile nell’immediato. Restano le tre colonne Mick Ralphs (chitarra), Boz Burrell (basso) e Simon Kirke (batteria), quindi tutte le luci dei riflettori vengono puntate sul nuovo ingresso Brian Howe, frontman britannico con un passato recente presso l’iconico Ted Nugent.

Il successo di “Agent Provocateur” dei Foreigner è ancora relativamente fresco, e già si annusa nell’aria che i Bad Company, come moltissimi altri “dinosauri” provenienti dai seventies, vogliano perorare la loro candidatura nel gotha dell’AOR.

"Fama E Fortuna" non è dunque un titolo scelto a caso dal quartetto per inaugurare il nuovo corso, ma anche una vera e propria dichiarazione d'intenti. La stessa scelta di Keith Olsen come produttore sembra chiarificare del tutto le strategie di mercato a cui viene assoggettato l'album. Il target sbandierato ai quattro venti da una simile restaurazione artistica viene centrato senza la benchè minima esitazione, come se i Bad Company fossero dediti al melodic rock da sempre. Certo, un cantante come Brian Howe, in grado di passare da toni soffusi a mostruosi picchi di estensione, contribuisce non poco a rendere "Fame And Fortune" la reale alternativa ai Foreigner di quegli anni. Le sue vocals su "Burning Up" e "Long Walk" (refrain "extraordinaire" da intonare a pieni polmoni) non temono paragoni con i maggiori esponenti del settore; nemmeno col fenomenale Lou Gramm, tanto per restare nel territorio degli autori di "I Want To Know What Love Is". Ovviamente le tastiere, accreditate a Greg Dechert, assumono un'importanza pari alla chitarra di Mick Ralphs, anzi si rivelano persino più determinanti nella creazione dell'humus creativo di songs quali "This Love", "Hold On To My Heart" e "Valerie".

L'unico appunto che potrebbe essere rivolto al 33 giri riguarda una sorta di crisi d'identità creativa che, ad un certo punto, determina un'oggettiva difficoltà nel capire dove finiscano i Bad Company e dove inizino i Foreigner. Lo spettro di un "4" o di un "Agent Provocateur" allunga infatti le proprie proverbiali ombre realizzative su songs dall'eccelso impatto epidermico: vedi la la title-track, "Tell It Like It Is" ed "If I'm Sleeping".

Perchè se è vero che Mick Ralphs e soci avevano già bazzicato i dintorni del rock americano con "Desolation Angels" e "Rough Diamonds", quasi come esperienza residuale rispetto all'imprinting originale, su "Fame And Fortune" si intravede immediatamente un progetto sulla lunga distanza. Le stratosferiche vendite negli States, confermate disco dopo disco dai successivi "Dangerous Age", "Holy Water" e "Here Comes Trouble", tutte opere che continuano il percorso inaugurato in questa occasione, certificano il raggiungimento dell'obiettivo prefissato.

Soltanto problemi personali intercorsi tra Brian Howe ed il resto della compagine fermerà la corsa all'oro di "questi" Bad Company, che tenteranno il ritorno alle sonorità "originali" sull'album "Company Of Strangers", che vede peraltro Robert Hart (già egregio protagonista coi The Distance) dietro al microfono.


ALESSANDRO ARIATTI 




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