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KANSAS "FREAKS OF NATURE" (1995)



Fondamentalmente i Kansas si ritirano dopo che il chitarrista Steve Morse abbandona il gruppo, non dopo aver dato il proprio basilare contributo ad album che li riportano sulla cresta dell’onda. Senza ovviamente evocare paragoni con gli irripetibili fasti degli anni 70, legati a capolavori del pomp rock come “Leftoverture” (1976) e “Point Of Know Return” (1977). Mi riferisco ad un “Power” (1986), oppure ad “In The Spirit Of Things” (1988), lavori bellissimi che instaurano un “regime” artistico funzionale alla decade di riferimento, ed in grado di farli sembrare nuovamente appetibili anche al pubblico dell’epoca. Nessuno avrebbe sospettato che ci sarebbero voluti ben sette anni per rivedere una nuova opera targata Kansas in circolazione: attenzione, la reunion avviene solamente in seguito alla richiesta di un promoter tedesco, che prospetta loro un lungo tour europeo.

“Freaks Of Nature” vede la luce nel 1995, in pieno tsunami grunge, e se è vero che quel movimento ha come ragione d’esistenza il recupero dei seventies, è altrettanto vero che non si tratta propriamente dei seventies legati alla rievocazione di un rock estetizzante e magniloquente come quello di Steve Walsh e soci. Tuttavia, questi sono discorsi che possono essere messi in tavola a posteriori, quello che conta è che finalmente il gruppo si ritrova in studio di registrazione per partorire un erede consono e degno ad “In The Spirit Of Things”. Il sestetto è ora formato da Phil Ehart (batteria), Steve Walsh (voce e tastiere), Billy Greer (basso), Greg Robert (tastiere e voce), Richard Williams (chitarra) e David Ragsdale (violino): al netto della latitanza di Kerry Livgren e di Robby Steinhardt, una formazione da far tremare i polsi. Letteralmente.

Prodotto dal guru Jeff Glixman, il CD mette in vetrina sei musicisti con una grande fame di musica: composta ed eseguita alla loro maniera, naturalmente. L’opener “I Can Fly”, al di là di un Walsh che mostra un po’ la corda sulle tonalità “soprane”, è uno scalciante brano che risalta anche per soluzioni fino ad allora inedite; oltre alle classiche melodie pompous/AOR, troviamo un break di tastiera e violino che evoca uno stile barocco, per poi riattivare la modalità elettrica “on” grazie ad un finale hard rock piuttosto spinto. “Desperate Times” sottolinea ulteriormente la carica energetica di “questi” Kansas: infatti, tra multivocalità stratificata ed una ritmica ineccepibile (Ehart resta uno dei drummer più fantasiosi in circolazione ancora oggi), non mancano neppure le sovrapposizioni di chitarra e violino inscenate da Williams e Ragsdale.

La ballad “Hope Once Again” parla il verbo del sontuoso melodic rock anni 80, e la sua purezza armonica viene ulteriormente sancita da un Ragsdale che non si limita a suonare il violino con l’archetto, ma si permette anche il lusso di pizzicarne le corde, per aumentare l’effetto avvolgente e confortevole del brano. “Black Fathom 4” suona probabilmente come la traccia più aggressiva del lotto, col suo inizio esplosivo ed un ritmo perentorio/incalzante sui cui si avventa nuovamente il violino “urlante” di un Ragsdale onnipresente. “Under The Knife” si propone come l’episodio più simile alla loro produzione della decade passata, tra parti strumentali di rara eleganza esecutiva, ed un chorus “a salire” direttamente sulla stairway to heaven. “Need” gioca su percussioni tribali e partiture di tastiera quale semplice accompagnamento alla voce di Walsh; siamo dalle parti di “Monolith” (1979), e non è poco.

Si arriva poi alla title-track “Freaks Of Nature”, che sciorina alcune similitudini nei confronti dell’hard rock alla Deep Purple, soprattutto per un utilizzo delle keyboards decisamente old-fashioned. “Cold Grey Morning” è invece “classic Kansas” al cento per cento, e non accusatemi di lesa maestà se sostengo che l’accostamento a certe atmosfere di “Leftoverture” non mi pare così campato in aria. La calma “karmica” di “Peaceful And Warm” chiude un album pienamente degno di fregiarsi del nome che porta, e con pieno merito.

Le critiche che lo accompagnano sono ovviamente quasi tutte “figlie del tempo”, visto che anche solo una tastiera viene vista come fumo negli occhi. Eppure i Kansas sono ancora qui: l’ultimo “The Absence Of Presence” (2020) è addirittura eccellente.


ALESSANDRO ARIATTI



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