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KEEL "KEEL" (1987)



Dopo la sua collaborazione con Yngwie Malmsteen per l'album "Steeler", a nome dell'omonima band, il cantante Ron Keel parte già con i favori del pronostico.

Non deve essere stato facile, nonostante l'intercessione di Mike Varney, boss della Shrapnel Records, "domare" un giovane cavallo imbizzarrito come il chitarrista svedese, soprattutto a quei tempi.

"Un disco di merda con un cantante di merda", dirà l'asso nordico della sei corde ogni volta che verrà intervistato (sottoscritto compreso) sull'argomento. Pensate un pò che bel clima si doveva respirare in seno a quella band, voluta effettivamente più dal produttore che non dai protagonisti stessi. Incassato il colpo, il frontman americano fonda il gruppo che porta il suo stesso cognome, e si afferma in modo abbastanza considerevole sul mercato americano, grazie alla realizzazione di dischi in rapida successione come "Lay Down The Law" (1984), "The Right To Rock" (1985) e "The Final Frontier" (1986). Ritmi impensabili per i chiari di luna odierni. Nel frattempo, Ron viene anche audizionato dai Black Sabbath per cantare su due brani composti dai Kick Axe, ma le cose non vanno per il verso giusto.

Ormai abituato alle avversità ed alle situazioni difficili, al cantante non resta che concentrarsi sulla sua band, cercando di massimizzare i frutti di un periodo particolarmente fortunato per l'heavy metal negli USA. Non è un caso che le sonorità dei Keel diventino gradatamente meno aggressive ma più eleganti e melodiche, nel tentativo nemmeno tanto velato di capitalizzare quanto raggiunto da Dokken e compagnia nelle classifiche di Billboard. Il problema è solo uno: Ron non ha né la voce, e nemmeno il talento compositivo del signor Don Dokken. Così come non può esibire un George Lynch in formazione ma, con tutto il rispetto, "soltanto" un Marc Ferrari ed un Brian Jay.

Però il frontman statunitense ha la capa tosta, e per il quarto album della sua band, intitolato semplicemente "Keel", si avvale della produzione di Michael Wagener, storico demiurgo del celeberrimo Dokken-sound: tagliente come una lama, avvolgente come il velluto.

Dieci canzoni dirette e senza fronzoli, con il giusto bilanciamento tra aggressività ed arrangiamenti importanti. L'opener "United Nations" apre le ostilità nel nome della maestosità tipicamente hair metal, ed il connubio tra potenza e melodia viene riproposto con convincente forza nel primo singolo "Somebody's Waiting", grazie al suo riff perentorio ed a linee melodiche in modalità presa rapida. "Cherry Lane" spalanca le porte al party metal, e bisogna ammettere che si tratta di un brano particolarmente ficcante, soprattutto per il suo refrain ossessivo e martellante. Nella ballad "Calm Before The Storm" si entra senza tanti giri di parole in campo AOR, ed in effetti fa specie leggere che, tra i credits di un brano così morbido, figura pure Jimmy Bain, bassista dei Dio. L'atmosfera torna a farsi rovente con "King Of The Rock", probabilmente la song più prossima ai Keel "sporchi e cattivi" di "The Right To Rock", anche se il coro viene trattato con tutte le accortezze del caso.

"It's A Jungle Out There" mette nel mirino nuovamente i Dokken cromati di "Under Lock And Key" e, pur non sfigurando nel logico confronto, non riesce ovviamente a raggiungerne l'eccellenza.

Le cose vanno molto meglio col pop metal di "I Said The Wrong Thing To The Right Girl", e con il melodic rock "agli steroidi" di "Don't Say You Love Me", che fotografa fedelmente l'attitudine di un'epoca tanto positiva (e propositiva) quanto spensierata. "If Love Is A Crime (I Wanna Be Convicted)" non brilla per incisività, nonostante l'apporto di Jamie St. James dei Black'n'Blue alle backing vocals; decisamente più convincente la patriottica "4Th Of July", col suo carico heavy piuttosto pronunciato.

Dopo "Larger Than Live" del 1989, album in parte inedito ed in parte live, bisognerà attendere il 2010 per rivedere un nuovo lavoro targato Keel con "Streets Of Rock'n'Roll", licenziato dalla mai troppo lodata Frontiers Records.


ALESSANDRO ARIATTI





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