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SOUL CAGES "SOUL CAGES" (1994)



C'è stato un periodo, complice anche il grande riscontro ottenuto dai Dream Theater di "Images And Words", in cui molte realtà pressoché nascoste sono salite alla ribalta della scena metal internazionale. Magari per una sola stagione, ma comunque sufficiente per poter almeno assaporare utopici sogni di gloria. Gruppi che facevano della commistione tra sonorità dure ed emozioni progressive il proprio credo. Quanti ne abbiamo visti "passare sotto i ponti"? Centinaia e centinaia, soprattutto nella prima parte degli anni 90, quando il pubblico del decennio precedente si trovò davanti alla scelta di mangiare la minestra o saltare dalla finestra, ammorbato da suoni che poco o nulla calzavano con l'idea (o ideale) di hard'n'heavy ereditato dagli Eighties.

Uno dei bacini di rappresentanza più ispirati è ovviamente la Germania, e proprio da lì, esattamente dalla Renania, arrivano i Soul Cages. Addirittura un sestetto, che vede nel cantante, chitarrista e tastierista Thorsten Staroske il proprio faro-guida. Il loro album d'esordio autointitolato è una preziosa gemma da incastonare tra le più raffinate uscite datate nineties, in virtù di uno stile decisamente maturo ed autoctono, che sicuramente cita alcuni grandi gruppi del passato più o meno recente (Fates Warning, Rush e Marillion su tutti), ma che sciorina personalità da vendere. A differenza dei "capi" Dream Theater, i Soul Cages evitano totalmente repentine accelerazioni o sconfinamenti verso il thrash, anzi puntano a creare una sorta di soluzione "orchestrata" (non orchestrale, attenzione), in cui l'atmosfera, avvolgente ed ovattata, la fa da padrone.

L'iniziale "The Narrow Path Of Truth" è un esempio perfetto di questa caratteristica, con le chitarre che creano una melodia mirabile e memorabile, prima che le parti vocali di Staroske si lancino nella costruzione di geometrie precise e perentorie. La magia si ripete con "New Horizons", "Reflection" e "Mindtrip", e non si fatica certamente a capire l'entusiasmo anticipatorio generato da queste composizioni dall'anatomia corale tra gli addetti ai lavori più colti ed attenti. Con "Actors Of No Return" entra in scena anche la brava corista Patricia Trautmann, ed il gioco di voci risulta assolutamente riuscito, fino alla sublimazione in un refrain dal sapore particolarmente struggente e malinconico. Più che ostentazione, per i Soul Cages parlerei di introspezione, una strada che difficilmente ha portato a consensi commerciali su larga scala (vedi, appunto, Fates Warning), ma che può tuttavia puntare su una fiera rivendicazione qualitativa.

L'autocitazionista title-track "Soul Cages", preceduta dall'intro "Incommunicado" (titolo che sembra un esplicito tributo ai Marillion), è forse la traccia che si confronta più apertamente con le dinamiche anni 90, soprattutto per quella doppia cassa mutuata da certo power di teutonica "denominazione ad origine controllata". A parte questo piccolo dettaglio, per l'album che stiamo trattando, ma anche per i successivi lavori ("Moments", "Craft" e l'autoprodotto "Moon"), si può certamente parlare più di art-rock che di metal tout court. Poco male, conosciamo benissimo, al di là di preconcetti vari, l'apertura mentale del pubblico hard'n'heavy, ed infatti "Soul Cages" crea, nel suo piccolo, un seguito di tutto rispetto. Tanto che il meritato seguito di cui gode, si rivela tangibile pure oggi presso diversi siti specializzati. I tempi cambiano, le mode passano, ma i dischi di spessore restano.


ALESSANDRO ARIATTI



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