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TOUCH "TOMORROW NEVER COMES" (2021)



Corre l'anno 1980, quando i Touch infiammano il pubblico di Donington per la prima rassegna annuale che passa alla storia come Monsters Of Rock. Leggenda narra che è Ritchie Blackmore in persona ad organizzare l'evento, posizionando ovviamente i Rainbow come attrazione principale della giornata. Visto il suo debole mai nascosto verso l'hard rock americano, al secolo definito AOR, non deve stupire che, ad aprire la prestigiosa vetrina musicale, il genio inglese inviti un allora semisconosciuto gruppo di nome Touch.

Il loro leader è il talentuoso tastierista Mark Mangold, già passato agli onori della cronaca con gli American Tears (se non avete "Powerhouse", vi consiglio di porre rimedio). Il primo, e fino a pochi mesi fa, unico lavoro omonimo firmato dal gruppo, risale a 41 anni fa, niente di meno. Le voci su un possibile nuovo album datato 2021 iniziano a rincorrersi, quando si viene a sapere che il succitato Mangold torna ad incontrarsi coi vecchi compagni di avventura Craig Brooks, Doug Howard e Glenn Kithcart. E presumibilmente non per giocare a carte davanti ad un bicchiere di vino, oppure per fumarsi qualche sigaretta in compagnia. Infatti eccoci qui, col nuovo CD "Tomorrow Never Comes" tra le mani, e gli occhi ancora sbalorditi per la sorpresa. Quattro decadi non sono uno scherzo, eppure la band sembra non essersi mai sciolta, dimostrando una baldanza compositiva che, come nel caso dell'ultimo Angel, pare essersi fermata al bus-stop delle vecchie generazioni. Bastano i cinque minuti della title-track, con le sue tastiere siderali ed il perfetto sincronismo delle hooklines, per spazzare via anni di melodic rock standardizzato e stereotipato. Per dimenticare produzioni asfittiche e tornare finalmente a sentire il "respiro" di una musica non soffocata da mixaggi infami.

Probabilmente per qualcuno si tratterà di una produzione troppo "vecchio stile", personalmente è l'unica a cui concedo diritto di cittadinanza nel genere di appartenenza. “Let It Come” potrebbe essere considerata il sequel di “Don’t You Know What Love Is”, loro unica top hit datata 1980, con quel riff scolpito che viene seguito da armonie ad ampio respiro, fino a sfociare nel tripudio del refrain. Mangold rimane un “drago” della tastiera, meno spettacolare rispetto al suo collega d’annata Gregg Giuffria, ma forse più concreto nel gestire le differenti sonorità del suo strumento. Tipo in “Swan Song”, un pomp rock capace di spaziare tra Queen e Styx senza mai risultare derivativo: quasi otto minuti che passano in un battito di ciglia.

Premesso che, tra le dodici tracce che vanno a comporre “Tomorrow Never Comes”, non vi è un solo episodio che potrebbe essere considerato “filler” per qualsiasi altro gruppo del settore, mi preme sottolineare la grandeur esotica di “Try To Let Go”, le avvolgenti “Trippin’ Over Shadow” e l'ipnotica “Glass” (Mangold spettacolare), ma anche la rutilante “Lil Bit Of Rock’n’Roll”. Con “Wanna Hear You Say” e “Fire And Ice” ci avviciniamo alle sonorità dell’altra band di Mark, i Drive She Said, prima che Craig Brooks ci riconduca con la sua voce squillante in ambito più hard rock oriented nella conclusiva “Run For Your Life”, della quale vi invito a leggere il testo con attenzione. Se questo è il passato che ritorna, allora che “il domani non arrivi mai”, come auspica forse utopicamente il titolo dell’album, corredato peraltro da una copertina che lascia presagire un inquietante futuro “trans-umano”. Davanti agli occhi di tutti, purtroppo.


ALESSANDRO ARIATTI




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