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UDO "ANIMAL HOUSE" (1987)



Non è un mistero per nessuno che gli Accept, dopo i successi internazionali di "Metal Heart" e "Russian Roulette", cerchino lo sbarco in terra americana. I connazionali Scorpions sono all'apice della popolarità USA, celebrata pure da uno dei live simbolo degli Eighties come "World Wide Live", che certifica l'enorme successo oltreoceano di dischi come "Black Out" e "Love At First Sting".

Certo, le basi di partenza sono ben differenti, perché mai Klaus Meine e soci si erano prodigati in episodi proto-speed metal come "Fast As A Shark" (shockante opener del masterpiece "Restless And Wild"), tuttavia la virata imposta già da "Balls To The Walls" autorizza determinate ambizioni. Udo Dirkschneider, urticante ed inconfondibile voce degli Accept, sente puzza di bruciato, e decide di lasciare gli amici Wolf Hoffmann e Peter Baltes alle loro sirene stelle e strisce. D'altronde, avreste mai immaginato credibile il "nanetto" teutonico come icona sciupafemmine per le procaci ninfee yankee? Molto meglio lo "stallone" David Reece (ex Bangalore Choir), che si accolla le parti vocali del successore di "Russian Roulette", quel "Face The Heat" che avrebbe fatto un sonoro buco nell'acqua, nonostante una qualità per nulla trascurabile.

Orgoglioso e coerente come pochi altri nella più che quarantennale storia del metal, il colonnello Dirkschneider si lecca le ferite, ma nemmeno poi tanto. In quattro e quattr'otto, mette in piedi una band che riporta semplicemente il proprio nome di battesimo, ed imbastisce un album che, chiaramente, dimostra chi sia il testimone più credibile del nome Accept. Arroccato nella sua autarchica visione di heavy metal, Udo chiama alle armi due nomi eccellenti come Peter Szigeti (chitarra) e Frank Riddel (basso), entrambi provenienti dai superbi Warlock, per completare poi la line up con la seconda sei corde affidata a Mathias Dieth (ex Sinner), ed il drum kit nelle mani di Thomas Franke. Quest'ultimo è l'unico dei cinque con un curriculum vitae "dimesso", avendo militato solamente in piccole band underground come Night ProwlerSnakebite e Stallion.

"Animal House" riprende il discorso esattamente dove era stato lasciato da "Russian Roulette", con una title-track (posta opportunamente in apertura) a scandire i dettami stilistici di un disco senza compromessi. La burrascosa "Lay Down The Law" è un episodio dai toni pesantemente Accept, ideale palestra per la voce al vetriolo di Dirkschneider, che si stempera parzialmente nella marziale "They Want War", scelta anche come singolo/video del 33 giri.
Il titolo lascia già presagire liriche dalle tematiche impegnate, ed il risultato finale è assolutamente degno delle aspettative. A farla da padrone è sicuramente il link stilistico con la sua ex band, che viene manifestato appieno in brani dal taglio netto e deciso quali "Black Widow" o "Go Back To Hell".

Certo, Udo è inconfondibile, ma anche Peter Szigeti dimostra totale dedizione alla causa, travestendosi da vice Wolf Hoffman con i suoi riff taglienti e perentori. Nella splendida ballad "In The Darkness", il piccolo frontman tedesco è "costretto" a sgravare i toni, sposando un'interpretazione lirica perfettamente modellata sulle coordinate più dolci che il brano richiede. Dopo un esordio così eccellente, Dirkschneider perorerà ulteriormente la causa con l'altrettanto valido "Mean Machine" dell'anno successivo, per poi tentare (esattamente come gli Accept di "Face The Heat") la carta americaneggiante in "Faceless World".

Ci separano più di trent'anni dagli eventi che stiamo raccontando: le rughe sono diventate profondi solchi, lo sguardo non sembra più strafottente come quello di un tempo, eppure Udo non sembra voler mollare di un centimetro. Una vita dedicata al metal. Fategli un monumento.


ALESSANDRO ARIATTI






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