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SAXON "SOLID BALL OF ROCK" (1990)



Sembra impossibile da credere oggi, con il perpetuo revival del metal 80's, tuttavia posso assicurare che, nel 1991, dei Saxon non fregava più nulla a nessuno. "Solid Ball Of Rock" esce a più di tre anni di distanza da "Destiny", sicuramente l'album più "american oriented" mai registrato da Byff Byford e soci, quando il clima sembra francamente ostile per i reduci della NWOBHM.

Grande mossa da parte del gruppo inglese è sicuramente quella di individuare una comfort zone geografica, situata esattamente nella tradizionalista Germania, tanto da assoldare Kalle Trap (Blind Guardian) per la produzione del disco.

Non è un mistero per nessuno il fatto che la terra tedesca abbia letteralmente tenuto in piedi la band, con vendite sempre soddisfacenti e tour importanti. Alla faccia di altri mercati "trendisti" dell'epoca, che sembrano invece accodarsi all'idiozia yankee.

Ricordo perfettamente che, nel corso degli anni 90, fui io stesso ad informare il caporedattore del magazine per il quale scrivevo sulle uscite dei Saxon: questo per farvi capire il livello di disinteresse generale nei riguardi di una band che, dal canto suo, non ha mai mollato di un centimetro. "Solid Ball Of Rock" vede anche l'ingresso di "sangue fresco", con il bassista Timothy Nibbs Carter che non entra affatto in punta di piedi, anzi compone da solo ben quattro canzoni su undici, mettendo poi la zampino in altri tre pezzi. E considerando il curriculum del quintetto inglese, la fiducia riposta nel giovane musicista non pare esattamente una cosa di poco conto. Anzi.

Il colpo da maestri si chiama tuttavia "Requiem (We Will Remember)", inno dedicato ai tanto eroi del rock che ci hanno abbandonato troppo presto, e che riprende tematiche maggiormente melodiche già sperimentate sui lavori del loro recente passato. Il fatto che venga scelto quale primo singolo/videoclip non stupisce affatto.

Ben lungi dall'essere il disco perfetto, "Solid Ball Of Rock" è un album fondamentale per il proseguio della carriera dei Saxon, perché rimette la band in carreggiata dopo le "sbandate" chic metal (personalmente molto gradite) degli episodi precedenti. Canzoni come la veloce "Altar Of The Gods", che evoca antiche sensazioni epiche, oppure "I Just Can't Get Enough", con la sua attitudine alla AC/DC, sentenziano come il gruppo abbandoni definitivamente velleità "americane", per concentrarsi sui gusti intransigenti della platea del vecchio continente. Come si diceva poc'anzi, non tutto fila liscio come l'olio, il senso di deja-vu affiora in più di un'occasione, così le varie "Lights In The Sky" e "Crash Dive", al di là della loro innegabile urgenza elettrica, non fanno certo gridare al miracolo.

I vecchi fans hanno tuttavia motivi di gioire per il ritorno all'efficacia del riff nudo e crudo di "Baptism Of Fire", ma anche per le suggestioni eroiche di "Overture In B-Minor/Refugee", con le sue reminiscenze in "The Eagle Has Landed"-style. "Ain't Gonna Take It" ed "I'm On Fire" non contemplano sofisticazioni come nel recente passato, e basano la loro forza d'urto unicamente sulla bontà di un songwriting scevro da overproduction. Ritorna anche il "fischio" di Mister Byford nell'iniziale title-track, quasi a voler sancire il ritorno alle sane e vecchie abitudini di "Motorcycle Man".

Ovviamente l'impatto sulla scena non è neppure lontanamente paragonabile a quello di inizio 80's, tuttavia senza una prova discografica "solida" come quella in questione, difficilmente i Saxon avrebbero goduto di una nuova chance, sfociata in una seconda giovinezza che ancora oggi, a distanza di 33 anni, non pare avere fine.


ALESSANDRO ARIATTI




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