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THE BLACK CROWES "THE SOUTHERN HARMONY AND MUSICAL COMPANION" (1992)



Dal detto al fatto, anno 1990, The Black Crowes diventano il nuovo fenomeno di esportazione statunitense. Il grande successo del loro esordio "Shake Your Moneymaker", 5 milioni di copie sparse per il pianeta, certifica l'ennesima scommessa vinta anche da parte di Rick Rubin e della sua etichetta (Def American). Il produttore/discografico, da gran volpone qual è, già pregusta il ritorno ad una forma estetica di rock più sanguigna e meno legata all'hair metal, trend che sarebbe poi diventato il leit motiv degli anni a seguire. Dopo essersi agganciati al carrozzone itinerante del Monsters Of Rock 1991, assieme ad AC/DC, Metallica e Queensryche, che fa tappa anche a Modena nel mese di settembre, la reputazione della band di Atlanta è destinata ad un ulteriore rialzo di quotazioni.

Tutto ciò nonostante molti avanzino dubbi sulla collocazione dei Corvi Neri in un contesto prettamente metal. Poco importa, l'ammirazione trasversale di cui godono i fratelli Robinson (Chris alla voce, Rich alla chitarra) rasenta il plebiscitario, tanto che il secondo album del gruppo diventa uno degli eventi più attesi del 1992. A livello di line-up, si registrano un paio di cambiamenti significativi: entra il tastierista/pianista Eddie Harsch, ed il secondo chitarrista Jeff Cease viene rimpiazzato da Marc Ford. "The Southern Harmony And Musical Companion" affonda le radici in modo ancora più saldo nel rock sudista di Lynyrd Skynyrd e Allman Brothers, e se l'esordio poteva risentire ancora, soprattutto a livello di produzione, dell'onda lunga street metal, stavolta il suono viene asciugato da ogni orpello tecnologico.

Non è affatto un male, anzi il lavoro dietro il bancone del mixer da parte di George Drakoulias esalta le caratteristiche più autentiche di una band che si candida ad esponente rivitalizzante del rock 70's. L'opener "Sting Me" mette subito in chiaro le cose, con l'inserimento di cori femminili perfettamente inseririti nel contesto vintage che si intende creare. Il primo singolo "Remedy" vede il piano di Eddie Harsch entrare prepotentemente a cadenzarne la ritmica, mentre Chris Robinson esalta pienamente la sua riottosa timbrica in stile primo Rod Stewart. Straordinario il blues di "Thorn In My Pride", ma anche l'hard rock venato di soul a titolo "Sometimes Salvation", entrambe a loro volta scelte come videoclip per sintetizzare l'indiscutibile mood dell'album.

E se "Hotel Illness" si pone esattamente nel mezzo tra Faces e Rolling Stones, "My Morning Song" e "No Speak No Slave" anticipano il tributo ai Led Zeppelin che avverrà in "Live At The Greek" (1999), proprio assieme alla leggenda del "Dirigibile" Jimmy Page.

Come chiusura di un'opera "senza tempo" viene addirittura scelta la cover di "Time Will Tell" (Bob Marley), risolta in un inaspettato stile gospel, ma che calza a pennello col resto dei contenuti.

Prevedibilmente, "The Southern Harmony And Musical Companion" stacca tutta la concorrenza del 1992, balzando al primo posto delle chart USA, e certificando il ritorno in pompa magna del rock sudista con rispettivi annessi e connessi.

È come se gli States, dopo anni di eccessi da over-production, si ricordino quanto sia bella la semplicità della "dolce casa Alabama", sintonizzandosi in massa sulle medesime frequenze di vent'anni prima.

Possiamo parlare di capolavoro assoluto firmato The Black Crowes? Non c'è ombra di dubbio, nonostante una qualità ed una credibilità che non verrà mai a mancare neppure nelle uscite successive ("Amorica" e "By Your Side" su tutte), le quali registreranno tuttavia un calo generale di consensi.

Ci penseranno poi i litigi fra i Robinson brothers a minare ulteriormente le sorti della band, ma le loro beghe personali non possono minimamente scalfire il valore di uno dei più grandi hard rock album degli anni 90.


ALESSANDRO ARIATTI 





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