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VAN HALEN "1984" (1984)



Con tutto il rispetto per George Orwell e per le sue nefaste profezie nazi-tecnocratiche, brutalmente manifestatesi durante i criminali anni della "pandemenza", avremmo preferito continuare ad identificare volentieri "1984" come un successo clamoroso dei Van Halen. Non come un tomo prodromo dell'attuale miseria umana, scandita a suon di diktat, ricatti, informazione ridotta a propaganda, soprattutto grazie ad un gregge di ebeti pronto a bersi qualsiasi cazzata. Tutti conoscono Eddie Van Halen come innovatore della chitarra, colui che ha stravolto il suono hard rock dei Seventies per farlo diventare punto di riferimento obbligatorio degli Eighties. Con tutto il suo conseguente carico di istrionismo, tecnica straordinaria ed estetica musicale annessa. Pochi, invece, valorizzano il suo ruolo nello sdoganamento totale dei sintetizzatori, strumento "trendy" dell'epoca, ma che viene visto da molti "metalhead" come fumo negli occhi. Provate a calarvi nell'epoca, quando non c'erano anticipazioni, teaser da 30 secondi e minchiate varie.

Fatto? Bene, allora cercate di immaginare la sorpresa di chi attende in modo spasmodico il nuovo album del Re della sei corde e della sua band, trovandosi come introduzione una title-track che è letteralmente un tripudio di sintetizzatori. Non basta, appena finisce l'antipasto, ecco partire un fantastico riff di tastiere che caratterizza l'esagerato hit single "Jump", incontestabilmente uno degli inni più conosciuti e celebrati del decennio. La chitarra di Eddie accompagna ritmicamente il tema portante del synth, ritagliandosi uno spazio legittimo soltanto per l'obbligatorio assolo. I primi sospiri di sollievo dei vecchi fan di dischi quali "Women And Children First" o "Fair Warning" arrivano con "Panama", peraltro secondo 45 giri dall'enorme successo. Riff secco e martellante, Alex Van Halen che pesta la batteria da suo pari col solito inconfondibile "beat", ed un David Lee Roth nuovamente nel ruolo di entertainer selvaggio. Diciamo che per quattro tracce consecutive, il pubblico Van Halen-iano non può appigliarsi ad alcuna lamentela: perché "Top Jimmy" è rock'n'roll quintessenziale con le tipiche genialate di Eddie, "Drop Dead Legs" un mid-tempo senza troppi fronzoli che avrebbe anticipato la "Cabo Wabo" di Sammy Hagar, e "Hot For Teacher" uno speed metal che solamente il DNA da entertainer di Roth può stemperare in senso goliardico. Il videoclip di quest'ultima diventa addirittura un "tormentone" sui primi canali musicali che trattano di hard'n'heavy, Italia compresa.

Altro pomo della discordia diventa invece la maestosa "I'll Wait", episodio pomp/chic metal gestito nuovamente dai synth e scelto come secondo singolo dopo "Jump", che evidenzia il desiderio del quartetto di spostarsi su terreni più easy listening. "Girl Gone Bad" e "House Of Pain" sono grandi esercizi di stile chitarristico, ma il sacro fuoco del passato sembra ormai focalizzato verso altri lidi stilistici.

È da imputarsi a questo malcelato "istinto" di Eddie il successivo disbanding con David Lee Roth, probabilmente non a proprio agio nei panni di voce melodiosa e maliarda, alla quale sopperirà invece straordinariamente Sammy Hagar già nel successivo "5150" (nome dello studio di registrazione acquistato da Van Halen).

Lo storico producer del gruppo Ted Templeman seguirà il cantante nella sua nuova avventura solista, iniziata col botto e con una band stellare (Steve Vai ed i Bissonette Bros) grazie ad "Eat 'Em And Smile", al quale i Van Halen risponderanno polemicamente con l'album a cinque stelle "OU812" ("Oh You Ate One Too").

Belle storie di ego e di talento spropositato, che solo gli anni 80 hanno saputo regalarci in modo così copioso. Piccola postilla, ma esemplificativa dello sfarzo del periodo: leggenda vuole che Eddie incontri Sammy in un'officina Ferrari. Oggi, al massimo, le rockstar potrebbero incrociarsi alla postazione di un ricaricatore di auto elettriche. Oppure in un negozio di monopattini. Mala tempora currunt.


ALESSANDRO ARIATTI




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