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AC/DC "LET THERE BE ROCK" (1977)


 


“Hard Rock: forma di rock’n’roll popolare. I ritmi mantengono una semplicità estrema, ma vengono portati al massimo della loro potenza e volume sonoro. La musica è violenta, le parti vocali selvagge”. Definizione firmata nel 1972, ma che sembra descrivere alla perfezione qualsiasi album degli AC/DC. Dopo aver messo a ferro e fuoco la natia Inghilterra durante i tour di “High Voltage” e “Dirty Deeds Done Dirt Cheap”, i mass media di sua Maestà si scagliano contro quei “figli bastardi” emigrati in Australia a cercare fortuna, lontano dalla povertà scozzese. Alcuni gestori di locali denunciano devastazioni, e non mancano nemmeno denunce parentali per oscenità: il gruppo se ne fotte, e sulla “Bibbia” Melody Maker rilancia la sfida a mezza pagina: “La prossima volta faremo di peggio. E’ una promessa!”. Il tutto infiocchettato dalla classica foto di Angus, vestito da scolaretto di tutto punto, che sputa sangue a fiotti. Chi aveva dato per morto e sepolto il rock duro, preso momentaneamente in ostaggio dalle opere sinfoniche di Yes, ELP o Genesis, aveva avuto la sua risposta.

L’irruenza e la spontaneità naturale degli AC/DC inizia a fare presa sui giovanissimi, ipnotizzati da quel “muro di suono” innalzato dagli Young Brothers, con Malcolm che sostiene: “Avere Angus in prima fila mi permette di ragionare meglio. Lui è sempre in trincea, sotto gli occhi di tutti, mentre io posso agire più moderatamente. Inoltre devo confessare che non sono tagliato per muovermi in quel modo forsennato: mi diverto molto di più a guardarlo”. Gennaio e febbraio 1977: il gruppo entra nei soliti Albert Studios di Sydney assieme al duo Wanda/Young per produrre quello che, da più parti, viene considerato il loro capolavoro assoluto. La title-track "Let There Be Rock", ad esempio, si propone come la Bibbia del rocker, con Bon Scott nelle vesti di Profeta, mentre racconta la genesi del genere dagli inizi fino all'anno della sua realizzazione. Facile, oggi, fare dell'ironia su un testo che accende altresì l'immaginario del pubblico di allora. Bisognerebbe saper sempre contestualizzare determinati eventi, altrimenti la figura dell'imbecille sta sempre dietro l'angolo. E basta spulciare a caso tra l'immondizia del web per trovarne a vagonate (di imbecilli, of course). L'album contiene alcune delle canzoni più energetiche e prepotenti che l'hard rock abbia mai partorito: come "Bad Boy Boogie" e la celeberrima "Whole Lotta Rosie", ovvero i dardi più velenosi di un lavoro pervaso dal totem di un'elettricità assurda, che non lascia né scampo né respiro all'ascoltatore. "Hell Ain't A Bad Place To Be" insiste su quella ritmica basilare che aveva fatto la fortuna di "It's A Long Way To The Top", ma il chitarrismo dei fratelli Young si è contemporaneamente affinato ed indurito, diventando una pietra angolare per intere generazioni dello strumento. Tutto diventa gigantesco in "Let There Be Rock", vedi l'amore portato agli eccessi in "Overdose" (che verrà spesso scelta come opener nel tour di supporto), oppure il riffing da sfondamento sferrato sull'attacco frontale della pesantissima "Go Down". Non mancano ovviamente gli inni "da strada" caratterizzanti la filosofia artistica e di vita della band ("Dog Eat Dog" e "Problem Child"), e risulta chiaro a tutti che, dopo "Let There Be Rock", la storia degli AC/DC è destinata a cambiare drasticamente.

Non siamo più davanti al sound di una fantastica "club band", ma ad una realtà musicale in grado di fronteggiare le arene più capienti. Ed anche se il successo negli USA non è certo paragonabile a quello del dopo "Back In Black", le cose iniziano a muoversi nel senso giusto. Si raccontano aneddoti incredibili riguardo a quella trasferta statunitense: come un Bon Scott dato per disperso, ma che viene ritrovato, ubriaco perso, in un ghetto di colore a cantare gospel religiosi assieme ai fratelli "neri". Storie che sfociano nella leggenda, ma vale sempre la pena raccontarle per ricordare che, oltre a questo, c'è stato anche un "altro mondo". Di cui gli AC/DC continuano tuttora a cantare gloria e bellezza. Imperiture.

ALESSANDRO ARIATTI




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