Passa ai contenuti principali

DIO "ANGRY MACHINES" (1996)


Sono tempi duri per gli dei del metallo tonante. La semplicità del grunge ha relegato grandeur ed epicità in un angolino, sostituendole con pragmatica attitudine e spietato groove. Molti eroi degli anni ’80 si trovano quindi davanti ad un bivio: continuare imperterriti per la propria strada, a costo di ritrovarsi a suonare in un cinema parrocchiale, oppure prendere il toro per le corna e cercare di domarlo? Nel caso specifico dei Dio, come fai a parlare ancora di arcobaleni quando ti trovi nell’occhio di un ciclone che sembra non finire mai, mentre all’orizzonte vedi il buio, soltanto un abbacinante, sconfinato buio? Probabilmente è questa la domanda che frulla per la mente di un Ronnie James Dio in balia delle onde del business. Allo stesso tempo la band è tosta e solida, con il fido Vinnie Appice alla batteria, l’ex Dokken Jeff Pilson al basso, il tastierista Scott Warren (che veste più che altro i panni di arrangiatore) e, last but not least, il chitarrista Tracey G.

Il contestato Tracey G., aggiungerei, considerato dai fans troppo “modernista” per dare voce alle visioni ad occhi aperti del piccolo stregone. Il problema è che il Ronnie di quel periodo non ne vuole più sapere di sogni e metafore alchemiche, ma vuole calarsi anima e corpo nella realtà. Una realtà brutale, violenta, ingiusta, crudele. Provate ad ascoltare questo album con la giusta predisposizione mentale, senza commettere l’errore (compreso il mio) di chi all’epoca “c’era”, e non riusciva proprio a digerire la svolta stilistica indotta da quei riff lenti, claustrofobici, disturbanti. E’ il caso dell’opener “Institutional Man”, oppure delle martellanti “Black” e “Big Sister”, dove Tracey G. si dimostra nettamente più a suo agio nella fase ritmica che non in quella solista. Unica concessione al passato la veloce “Don’t Tell The Kids”, per il resto “Angry Machines” è una sorta di “inno” al groove più darkeggiante ed incazzato, guidato dalle frastornanti “Double Monday” e “Big Sister”, dove Ronnie canta con la rabbia di un predestinato al patibolo. Discorso a parte per “Stay Out Of My Mind”, specialmente per quei gelidi arrangiamenti di tastiera e synth di uno Scott Warren che asseconda alla perfezione lo stato mentale del proprio boss. Da riscoprire e assaporare con calma, quasi si trattasse di un nuovo album dell’indimenticabile vocalist italo-americano.



ALESSANDRO ARIATTI 

Commenti

Post popolari in questo blog

INTERVISTA A BEPPE RIVA

C'è stato un tempo in cui le riviste musicali hanno rappresentato un significativo fenomeno di formazione personale e culturale, ed in cui la definizione "giornalista" non era affatto un termine usurpato. Anzi, restando nell'ambito delle sette note, c'è una persona che, più di tutte, ha esercitato un impatto decisivo. Sia nell'indirizzo degli ascolti che successivamente, almeno per quanto mi riguarda, nel ruolo di scribacchino. Il suo nome è Beppe Riva. E direi che non serve aggiungere altro. La parola al Maestro. Ciao Beppe. Innanzitutto grazie di aver accettato l'invito per questa chiacchierata. Per me, che ti seguo dai tempi degli inserti Hard'n'Heavy di Rockerilla, è un vero onore. Inizierei però dal presente: cosa ha spinto te e l'amico/collega storico Giancarlo Trombetti ad aprire www.rockaroundtheblog.it? Ciao Alessandro, grazie a te delle belle parole. L'ipotesi del Blog era in discussione da tempo; l'intento era quello di ritag...

WARHORSE "RED SEA" (1972)

Sul blog abbiamo già parlato del primo, omonimo album dei Warhorse, band nata dall'ex bassista dei Deep Purple, Nick Simper. Il loro debutto, datato 1970, esce in un periodo abbastanza particolare dove, il beat prima ed il flower power poi, si vedono brutalmente scalzati da un suono ben più burrascoso e tumultuoso. Il succitato Simper, pur avendo fatto parte "soltanto" degli albori (i primi 3 dischi) dei Deep Purple, vede la sua ex band spiccare letteralmente il volo con il rivoluzionario "In Rock", contornato a propria volta da altre perniciose realtà quali Led Zeppelin o Black Sabbath. "Warhorse" suonava esattamente come il giusto mix tra l'hard rock "Hammond-driven" di Blackmore e soci, e le visioni dark di Toni Iommi. Il 33 giri, nonostante l'eccellente qualità di tracce tipo "Vulture Blood", "Ritual" e "Woman Of The Devil", non vende molto. Anzi, contribuisce al rimpianto di Simper di essere stato sc...

LABYRINTH: "IN THE VANISHING ECHOES OF GOODBYE" (2025)

Se quello che stiamo vivendo quotidianamente, ormai da una ventina d'anni, non fosse un fottutissimo "absurd circus"; se esistesse una logica a guidare le scelte della mente umana, divenuta nel frattempo "umanoide"; se insomma non fossimo nel bel mezzo di quel "Pandemonio" anticipato dai Celtic Frost quasi 40 anni fa, i Labyrinth dovrebbero stare sul tetto del mondo metal. Nessuna band del pianeta, tra quelle dedite al power & dintorni, può infatti vantare, neppure lontanamente, una media qualitativa paragonabile ai nostri valorosi alfieri dell'hard'n'heavy. Certo, hanno vissuto il loro momento di fulgore internazionale con "Return To Heaven Denied" (1998), della cui onda lunga ha beneficiato pure il discusso "Sons Of Thunder" (2000) che, ricordiamolo ai non presenti oppure ai finti smemorati, raggiunse la 25esima posizione della classifica italiana. Poi la "festa" terminò, non in senso discografico, perché...