Hard rock moderno, oscuro ma melodico, con un protagonista che diventa sempre più consapevole non solo delle proprie indiscusse qualità chitarristiche, ma anche delle sue doti canore. Non deve essere facile sapere di doversi confrontare con una voce "extraordinaire" come quella di Myles Kennedy, anche se nel corso degli anni Mark Tremonti sembra aver carpito dal suo sodale negli Alter Bridge alcuni "trucchetti" non indifferenti. Nonostante non possa attingere ad una estensione paragonabile, le sfumature armoniche impresse sui brani di "The End Will Show Us How" arrecano il copyright del "compagno di team", a partire da quelle note allungate nel vibrato che ne rappresentano uno degli spaccati maggiormente rappresentativi. L'album, come si diceva prima, suona decisamente malinconico eppure potente, dark ma anche impassibile rispetto ad una percentuale di frubilità obbligatoriamente tarata su determinati parametri odierni. Tremonti non ha mai nascosto, fin dai tempi dei Creed, l'ammirazione per certi gruppi grunge di fine millennio: l'apprezzamento per il genere arriva forse fuori tempo massimo, ma occorre sottolineare come gli stessi Alter Bridge non siano mai stati indifferenti nei riguardi di quelle coordinate stilistiche. E, nonostante il lasso temporale, il responso del pubblico è sempre stato più che lusinghiero. Lungi da me riabilitare un periodo che, piaccia o non piaccia, ha riportato concretezza in un universo musicale che era diventato probabilmente la parodia di sé stesso: l'unico "dovere" che mi sento di rispettare è quello di imbastire le lodi di un album solido come la roccia. Per i revisionismi storici alzo le mani, e lascio il compito ai tanti tuttologi del web e dei social. Affermo infatti senza ombra di smentita che canzoni come "The Mother The Earth And I" oppure "Now That I've Made It" avrebbero la struttura adatta per "pavoneggiarsi" anche se avessero fatto parte del sublime "Blackbird" degli Alter Bridge. Nulla di meno. Eppure lo spin-off Tremonti mantiene anche la promessa di una sostanza più heavy e martellante, causa perorata senza indugi dal groove di "Nails", "Live In Fear" e "One More Time". E se Myles Kennedy, nell'ultima fatica solista ("The Art Of Letting Go"), ha accorciato brutalmente le distanze tra le iniziali ambizioni autoctone di "Year Of The Tiger" e la band madre, anche Mark segue un percorso di progressiva continuità, a discapito di una orgogliosa differenziazione. Poco coraggio? Non direi, piuttosto la definitiva presa di coscienza dell'autorità (ed autorialità) di una proposta che difficilmente può essere scissa dagli inconfondibili protagonisti. I saettanti synth, che fendono il muro del suono in "All The Wicked Things", rappresentano un interessante diversivo che rende ancora più affascinante il brumoso contenuto di "The End Will Show Us How". Il "classic hard rock" che, a nostra volta, identificavamo in determinati gruppi coi piedi ben piantati nei 70's, ha ormai mutato pelle senza tradire il primordiale DNA. Evoluzione o involuzione? Ai posteri l'ardua sentenza.
ALESSANDRO ARIATTI
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