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DREAM THEATER "PARASOMNIA" (2025)


 
Raramente, attorno ad un disco, si è creata una tale attesa (hype, dicono quelli bravi e moderni) come nel caso di “Parasomnia”. Almeno negli ultimi chiari di luna. Non tanto perché si tratta di un nuovo album dei Dream Theater, il che sarebbe già un “incentivo” per chiacchierarne diffusamente. Quanto perché si parla dell'occasione che segna il ritorno in formazione del “brother in arms” Mike Portnoy, dopo quindici interminabili anni lontano dalla sua band. “Black Clouds And Silver Linings” arreca infatti la data 2009 e, se devo essere sincero, è l’ultimo lavoro in studio del quintetto newyorkese che ho apprezzato realmente dall’inizio alla fine. Mike Mangini, il suo nobile sostituto, per quanto professionalmente irreprensibile  e tecnicamente mostruoso, ha tatuata in fronte la dicitura “session man”;  lungi da me apparire irrispettoso ma, alle opere che registrano la sua partecipazione, manca la “spinta” del compositore e dell’arrangiatore. Dote che invece ha sempre caratterizzato Portnoy, fin dai tempi pioneristici di quel leggendario demo-tape datato metà anni ’80, a nome Majesty. Dopo i colori sgargianti di “A View From The Top Of The World”, la copertina di “Parasomnia” tende decisamente al nero, quasi si trattasse di un mix tra la leggiadria di “Images And Words” ed il succitato & darkeggiante “Black Clouds And Silver Linings”. Un caso? Io non credo. Spazziamo via immediatamente il campo da dubbi ed equivoci: il disco non apporta assolutamente nulla di nuovo, eppure basta il “rullo di tamburi” del Mike originale a posizionarlo un paio di gradini sopra qualsiasi cosa uscita dal 2009 fino ad oggi. Non di poco, tra l’altro. Stilisticamente siamo al periodo post “Scenes From A Memory”, con Petrucci che accende spesso e volentieri il jack della chitarra nella modalità “moto perpetuo”, tuttavia  il suo ingombrante protagonismo se la deve vedere con l’altrettanto inconfondibile drumming di Portnoy. Tornano le melodie “classiche”, ed anche l’anello debole della congiunzione James LaBrie pare risorto a nuova vita. E’ la vecchia teoria di Ritchie Blackmore: affinchè una band funzioni, occorre che al suo interno regni una sana tensione. Se non personale, almeno stilistica. Ed è innegabile che, quando John e Mike si trovano nella stessa stanza, qualcosa di magico scatta. “Parasomnia” non è un concept album nel senso più classico del termine: però trattasi di lavoro “a tema”, incentrato ovviamente sul fattore onirico, che molti psichiatri considerano una finestra sul vero “io”. Ci possono essere mostri laggiù, ed è terrificante pensare di non riuscire a destarsi del tutto: avete mai provato a svegliarvi con un piede ancora “di là”, sospesi tra due mondi? Se la sensazione è famigliare, sono certo che difficilmente la dimenticherete. "Galleggiamo tutti quaggiù, e galleggerai anche tu", recita il cover artwork interno. Ma anche "Loro ti guardano, e sanno dove dormi". Benvenuti nell'incubo. 


La spettacolare intro “In The Arms Of Morpheus” vede Petrucci e Rudess protagonisti della scena, prima che il riffone doom-prog del singolo “Night Terror” ci introduca tra le dinamiche liriche dell’opera. I soliti fenomeni da tastiera (non quella di Jordan) hanno già abbaiato in rete le proprie sentenze dopo mezzo ascolto, dall’alto di una sapienza musicale ovviamente superiore a quella dei Dream Theater: giusto? Personalmente, da povero ignorante “antisocial”, mi limito a verificare l’efficacia del tipico suono d’assieme non replicabile da alcun "rimpiazzo", che sfocia in un refrain accostabile a quelli dei tempi migliori. “A Broken Man” appare ancora più articolata, con un vago sentore alla "Awake" che ne decreta la riuscita: l’intermezzo swing è il colpo di genio che eleva un buon pezzo sul livello direttamente superiore. Al di là della linea melodica certamente deja-vu, trovo invece lodevole la presenza di Rudess più arrangiatore che accentratore. L'urgenza di un ritorno al passato così prepotente non conosce ostacoli, tanto da risultare travolgente negli undici minuti di "Dead Asleep", che racconta di un episodio di sonnambulismo sfociato addirittura in uxoricidio. Subito dopo la tenebrosa intro acustica, il brano si posiziona ai limiti del thrash metal, mitigato qua e là da armonizzazioni di chitarra e tastiera: se dicessimo di trovarci dalle parti di "Systematic Chaos", non ci discosteremmo molto dalla realtà oggettiva. "Midnight Messiah" ricorda quanto i Dream Theater amino ancora oggi gli "old" Metallica, per uno splendido esercizio di autocitazionismo nei confronti di "Train Of Thought", ovvero l'episodio più violento della loro carriera.


Con la breve strumentale (la seconda) "Are We Dreaming?", si arriva ad un subliminale livello di lettura da attribuire al significato dell'album. Almeno per come la vedo io. È un caso che l'inizio venga dedicato a Morpheus, altisonante nome mitologico del protagonista che conduce al risveglio dalla Matrix (il film con Keanu Reeves)? E che come intermezzo ci si chieda se, in fondo, la vita non sia altro che un sogno? Non intendo alimentare teorie del complotto, peraltro già abbastanza ricche e fantasiose di proprio, eppure credo che in questo caso la simbologia sia un elemento tutt'altro che trascurabile. "Bend The Clock" ribadisce la motivazione del tanto amore che circonda questa band, per intensità di scrittura e maestosità esecutiva: anzi, sfido chiunque a contestare la performance dietro al microfono di LaBrie, con quei vocalizzi "ad ampio respiro" che si trovano nelle corde sue e di pochi altri. Senza scomodare paragoni con le ballad del passato, sono convinto che anche stavolta i Dream Theater abbiano aggiunto un nuovo classico al loro repertorio pressoché sconfinato: assolo Gilmour-iano di Petrucci da "sogno". Chiude la lunga suite "The Shadow Man Incident", con Jordan Rudess che reitera l'utilizzo di pianoforte ed Hammond, in una sorta di festival vintage del metal progressive. Con tutti i relativi cliché del caso che, a noi nostalgici, piacciono ancora così tanto. Il micidiale mitragliamento chitarra/sezione ritmica dal minuto dodici al minuto quattordici è roba da fuoriclasse del metronomo, mentre i chiacchiericci da "bar sport" stanno a zero. "Parasomnia" è un piacevolissimo, nostalgico ritorno a casa, senza stravolgere né inventare alcunché: esprime semplicemente la voglia del gruppo di essere sè stesso fino in fondo. Perché, sotto sotto, sono "questi" i Dream Theater che tutti noi vogliamo ascoltare.




ALESSANDRO ARIATTI 

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