È il 1997 quando i Faith No More, dopo aver dettato il bello ed il cattivo tempo fin dai tempi di "The Real Thing" (1989), fanno sparire le proprie tracce. "Album Of The Year" suona come un buon commiato, anche se in realtà ai tempi della sua uscita nessuno nel gruppo parla apertamente di staccare la spina. Per ben 18 anni, ancora meno. Pare un battito di ciglia, invece è il tempo che ci si mette a nascere e prendere la patente di guida. Dice il bassista Billy Gould: "Quando ci siamo riuniti, non eravamo più nel mood di dover rompere gli schemi a tutti i costi come tra la fine degli 80's ed i 90's. Ci siamo detti: ora facciamo un album che sia inconfondibilmente Faith No More, ma che si concentri anche su un lavoro di squadra improntato al songwriting". Detto, fatto. "Sol Invictus" incorpora tutte le prerogative del gruppo, ma la distanza tra le varie tipologie di episodi si presenta molto accorciata rispetto al passato. Per farla breve, non c'è più il brano dall'appeal irresistibile affiancato da uno sfogo di libera cacofonia: il tutto risulta più armonico, lineare, coerente. Innocuo? Dipende dai punti di vista. Se si chiede ad un gruppo di presidiare costantemente posizioni "barricadere" nei confronti del music business, allora la risposta può essere positiva. Se invece ci si accontenta di un album dei Faith No More che "non vuole essere altro che un album dei Faith No More", francamente è difficile rimanere delusi da "Sol Invictus". Il ritorno, dopo tutto questo tempo, appare all’insegna dei medesimi suoni frequentati in passato, senza tuttavia la folle ispirazione che rese immortali capitoli quali il già citato "The Real Thing" ed "Angel Dust" (1992), col loro caleidoscopico miscuglio di stili irraggiungibile per molti. Di quella rabbiosa onda d'urto rimane "soltanto" un timido alone dissacratore, sostituito da una decina di brani sinceri e piacevoli. È già tanto, a dire il vero, ascoltare materiale inedito da parte del quintetto, soprattutto in un periodo (il 2015) in cui il music business inizia ad offrire tutto tranne che possibili orizzonti di gloria. "Sol Invictus" suona sincero, fedele al marchio, ma è come se i "toni" si siano ammorbiditi e "standardizzati": tuttavia la cosa non è necessaria un male. Anzi. "Superhero" rievoca incontestabilmente le innovazioni antiche di "From Out Of Nowhere", ad esempio; eppure si tratta di un brano che esalta tutte le peculiarità dei Faith No More, senza tanti rimpianti verso una mancata progressione sonora. La stessa title-track si tiene in equilibrio tra la drammaticità del pianoforte e delle tastiere di Roddy Bottum, che fanno da contraltare alla tipica performance "borderline" di Mike Patton. Il cantante passa da screamer (moderato per l'occasione) a crooner in "Sunny Side Up" e "Back From The Dead", alternando i toni melodrammatici di "Matador" alle montagne russe d'intensità incanalate da "Separation Anxiety". Incassato il secco rifiuto all'operazione reunion da parte dell'irsuto chitarrista Jim Martin, al netto di un Jon Hudson sicuramente più tecnico ma meno visionario, le grandi protagoniste di "Sol Invictus" risultano le keyboards di Bottum e la duttilità di un Patton che migliora invecchiando. Avremo ancora il piacere di risentirli assieme? Lo dirà solo il tempo.
ALESSANDRO ARIATTI
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