Per la sua incredibile e proverbiale longevità artistica, Pino Scotto dovrebbe al diavolo qualcosa di più di una manciata di canzoni. Tuttavia le cose cambiano se quell'album viene esplicitamente dedicato al "dio blues", quel genere che, per storicità ed identità culturale, viene associato da sempre a messer Satanasso. Il titolo "The Devil's Call" deriva proprio da questo riferimento socio-stilistico, non certo per una improvvisa conversione del celebre cantante milanese al "lato oscuro" della forza. Sono passati cinque anni abbondanti dal suo ultimo lavoro in studio, quel "Dog Eat Dog" a cui i ripetuti lockdown pandemici tarparono immediatamente le ali del consueto tour. Chiusura dopo chiusura, coprifuoco dopo coprifuoco, Scotto si ritrovò pertanto a programmare da casa interviste promozionali in streaming, per diffondere il verbo di uno dei suoi dischi più vari e riusciti. Un'autentica tortura per chi, come lui, è abituato a macinare chilometri su e giù per la penisola, scambiando le notti per giorni. Tra bandierine rosse, gialle, bianche, e somministrazioni massive di vaccini, la situazione "globale" non fa in tempo a normalizzarsi che si passa da emergenza epidemiologica ad emergenza bellica. Siccome ad ogni azione corrisponde una reazione, solitamente inversa e contraria, non stupisce che la sensibilità umana ed artistica di Pino abbia spinto nella direzione di un rassicurante ritorno fra le braccia della sua primitiva musa ispiratrice. Il blues, appunto. Forse la mia è una ricostruzione soggettiva, ma non credo che si allontani molto dal vero. L'apripista "No Fear No Shame" è un liberatorio urlo rock, gestito tra ritmiche battenti, chitarre d'assalto e un pianoforte che fende l'impatto elettrico. Arriva poi la voce graffiante di Scotto, che non risparmia una goccia di grinta, ed intinge il pennino delle lyrics direttamente nel curaro. Il brano è prevedibilmente destinato a diventare uno dei prossimi travolgenti hit dal vivo, e risulta un piacere (almeno per il sottoscritto) constatare il ritorno di Steve Angarthal alla sei corde e Dario Bucca al basso.
È invece "Phantom Humanity" ad imboccare senza indugi la "voodoo highway", con il riff dal tono quasi ritualistico che impone un polveroso cadenzato dalle tinte oscure. Il coro propiziatorio suona funzionale al profondo significato del testo, dove "l'umanità fantasma" viene considerata come principale responsabile della pazzia dilagante. "Catch 22" si posiziona dalle parti del southern rock di Lynyrd Skynyrd e Molly Hatchet, alzando le frequenze del ritmo, ma impattando su un reticolato di slide guitar sorprendenti per intensità di fuoco (Angarthal fenomenale). Il refrain appare più classicamente incline all'attitudine dello Scotto post "Eye For An Eye", eppure il mix finale gode di un bilanciamento praticamente perfetto. Il Gary Moore periodo "Still Got The Blues" ed "After Hours" si candida come punto di riferimento piuttosto lampante di "A Dozen Souls": stavolta la guitar è quella di Osvaldo Di Dio, che furoreggia in lungo ed in largo a sostenere le linee melodiche di Pino praticamente ad ogni strofa. "Good And Evil Dance" viene aperta proprio dall'ennesima magia di Angarthal, che trasforma un arpeggio di chitarra in riff, sulla falsariga dei Led Zeppelin di "The Song Remains The Same". Ci pensa poi Scotto a conferire al pezzo la giusta drammaticità, con quel "hey, have you heard the news, the world is tumbling down" che introduce all'eterna lotta (danza, in questo caso) tra Bene e Male assoluti. Tocca quindi a "True Friend", una strepitosa ballad dagli umori rurali e southern, scelta peraltro come primo singolo/video dell'album. Musicalmente siamo dalle parti dei succitati Lynyrd Skynyrd di "That Ain't My America", e solo chi ha un cuore grande ed un'anima pura può permettersi di scrivere qualcosa di simile. Il testo parla di amicizia, quella vera, che deve "combattere quotidianamente contro i soliti mulini a vento", ed il binomio Scotto/Angarthal emoziona come solo i grandi interpreti del genere riescono a fare.
Il crepuscolare inizio di "Full Circle", con Pino nelle vesti di blues crooner, farebbe ipotizzare un brano pacato ed intimista, ma ben presto la chitarra innesca un vorticoso hard'n'roll che scatena un singing corrosivo. Quel "no more demons in your mind" conferma l'aura di positività voluta, cercata e trovata dall'ex frontman dei Vanadium in "The Devil's Call". L'impressione è confermata in "Afraid Of Living", con tutti i suoi crismi rhythm'n'blues old school, rafforzati da un testo che denuncia l'esistenza di "morti che camminano" perché troppo impauriti da una possibile dipartita per godersi la vita. Ogni riferimento al recente passato è opportunamente voluto, almeno credo. "Big Mama" è un plateale atto d'accusa verso gli Stati Uniti D'America, considerati apertamente i deus ex machina nascosti dietro qualsiasi schifezza, mentre "A Time For War" rappresenta una sorta di variazione sul tema "Hoochie Coochie Man" (Muddy Waters), con l'Hammond di Enzo Messina che scava un solco di tradizione assai gradito. La chiusura viene riservata alla traccia che dà il titolo all'album, dove fanno capolino gli epici Molly Hatchet del magistrale "Devil's Canyon": e le similitudini (sicuramente inconscie e non ricercate) coinvolgono pure il cantato di Scotto, accostabile allo stile del compianto Phil McCormack. Indipendentemente dal riscontro del pubblico, "The Devil's Call" ribadisce la statura di un'artista che non vuole mai restare uguale a sé stesso, pur mantenendo intatte le prerogative che ne hanno definito l'ultra cinquantennale carriera. Pensatela come volete, ma personalmente credo che uscirsene con un disco simile, a 75 anni suonati, è roba da fenomeni. Discorso diverso per un difficile airplay radiofonico: solitamente ci si accontenta di "acqua del cesso che si considera champagne". Date un palco a Pino, tutto il resto non conta. Ultima considerazione, che è anche un auspicio personale: spero che l'alchemica coppia Scotto/Angarthal non si sciolga più.
ALESSANDRO ARIATTI
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