Vinny Appice alla batteria, Chuck Wright al basso, addirittura Tony Carey alle tastiere: più gente che ha fatto di un determinato suono la propria ragione di vita artistica, ovvero Doug Aldritch alla chitarra ed Andrew Freeman alla voce. Questi sono i Sign Of The Wolf, sorta di "super gruppo" (se la definizione, oggi, ha ancora un senso) che si ispira in modo manifesto e spudorato a Rainbow, Dio, Whitesnake e, perchè no, ai Black Sabbath di fine anni 80. Questo omonimo album non possiede un pizzico di originalità che sia uno, ma quando le canzoni sono di questo livello, francamente non sapremmo che farcene. Parliamoci chiaro: per trovare un'opera dal simile songwriting in riferimento alle band succitate, bisogna risalire alle uscite di circa 35/40 anni fa! E chissenefrega se il riff di "Arbeit Macht Frei" utilizza il medesimo giro di "Stand Up And Shout" dei Dio, se "Murder At Midnight" e "Bouncing Betty" potrebbero essere un paio di inediti da "Slip Of The Tongue". Per non parlare dell'iniziale "The Last Unicorn" (con tanto di intro synth alla "Tarot Woman"), che non può temere accuse di revivalismo, visto l'impeto con cui viene attualizzato uno stile che tutti noi abbiamo amato alla follia nell'epoca d'oro del genere. Voce straripante, melodie perfette, chitarra e tastiera che si integrano e si sostengono a vicenda: chiedere di più sarebbe una richiesta francamente ingenerosa. "Still Me" sembra quasi la versione edulcorata di "Desert Song" (MSG di "Assault Attack"); la differenza viene stabilita dalle armonie di Freeman, nonché da un arrangiamento più incline al melodic rock. La title-track percorre gli iperbolici tracciati fantasy di "Heaven And Hell", quasi come il Danny Torrance di Shining che replica a ritroso le sue stesse orme sulla neve. Le geometrie arabeggianti di "Silent Killer" scomodano "Stargazer" e "Gates Of Babylon", in un rincorrersi di note che sottendono forza epica e rocciosa prosa heavy metal, connubio teoricamente risaputo, ma nella pratica assai difficile da ottenere con filologica efficacia. Almeno agli occhi (ed alle orecchie) degli esigenti fans del settore. "Rainbows End" contiene in egual misura enfasi lirica e sostenuta struttura hard rockeggiante, sulla scia dei Dio di "One Night In The City" e "Rock'n'Roll Children", riferimenti che non potranno che ingolosire i nostalgici duri e puri. Al di là delle preferenze personali, non si può tuttavia non sottolineare l'eccellenza in fase compositiva (ed esecutiva) di tracce come "The Rage Of Angels", con tutto l'imponente trademark che ne consegue. Quando si mira ad un target ben specifico, lo sterile esercizio calligrafico può sempre nascondersi dietro l'angolo, ma non è certamente questo il caso. Eccellenza metal rock uscita fuori tempo massimo, perchè, negli Eighties, i Sign Of The Wolf non avrebbero fatto prigionieri.
ALESSANDRO ARIATTI
Se gli Iron Maiden sono la band heavy metal più unanimamente amata nell'universo, altrettanto unanime (o quasi) sarà la risposta alla domanda su quale sia il loro album peggiore. Per la solita storia "vox populi, vox dei" si concorderà a stragrande maggioranza su un titolo: "Virtual XI". Il fatto è che questo è un blog, neologismo di diario personale; e caso vuole che, al sottoscritto, questo album è sempre piaciuto un sacco. Ma proprio tanto! Reduci dal discusso "The X Factor", oggi sicuramente rivalutato da molti eppure all'epoca schifato da tutti, Steve Harris e soci confermano ovviamente Blaze Bayley, lasciando appositamente in secondo piano la vena doom-prog del 1995. Due anni e mezzo dopo, tempo di mondiali di football, ed una realtà che inizia ad entrare con tutte le scarpe nella "web zone": col loro consueto talento visionario, gli Iron Maiden prendono tre piccioni con una fava. 1) Il Virtual sta ovviamente a rappresentare la perc...

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