Chi ha detto che solo le foreste scandinave possono essere le muse ispiratrici per un determinato tipo di sound? Quello che viene ormai comunemente (e stucchevolmente) definito "glaciale", "fiamma nera", "elitario" e cazzate del genere, per capirsi. Seguo con interesse i Blackbraid da qualche anno: mi intriga molto il concetto di questo "nativo americano", tal Jon S. Krueger from Guadalajara, portare avanti la sua one-man-vision come se fosse un brutto ceffo battente bandiera norvegese. Tra "seguire" ed approfondire, ci passa di mezzo il mare, e siccome questo è un blog libero da qualsivoglia legame (leggasi leccata di culo) con case discografiche, artisti più o meno noti e quant'altro, stavolta ho deciso di soffermarmi in modo più approfondito sulla nuova uscita del ragazzo. Non per partito preso, ma perché "III" è proprio bello: bello sul serio! Non sono né un esperto né tanto meno un fanatico del settore, ma credo di riuscire ancora a distinguere un disco black metal mediocre da un altro dannatamente buono. In canzoni come "The Dying Breath Of A Sacred Stag", ad esempio, sento molto lo spirito Bathory del periodo ibrido, in particolare la furia cieca di "A Fine Day To Die". Una reiterazione di quello stile grezzo e primitivo, eppure strutturato secondo le esigenze dell'estremo 2.0. Non mancano infatti momenti di folklore sull'album, che non spezzano affatto l'intensità, ma ne aumentano anzi l'aspettativa epica. Krieger sostiene candidamente di ispirarsi anche agli Immortal, ed effettivamente si notano palesi echi di "At The Heart Of Winter"; dice tuttavia, a mio avviso molto intelligentemente, che non si sarebbe ritenuto credibile se, nei suoi pezzi, avesse parlato di Thor o di saghe vichinghe. Infatti la forza dei Blackbraid, oltre che nell'impatto frontale, risiede in una spiritualità strisciante che si manifesta sia nelle fugaci sezioni atmosferiche che negli impasti sonici maggiormente violenti. Nonostante la mancanza di tastiere, "III" evoca brutalità regale: il sangue non mente.
ALESSANDRO ARIATTI
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