Il debutto solista di Glenn Tipton, una delle due "six strings" storiche dei Judas Priest, esce in un periodo particolarmente delicato per la band "madre". Dopo il tour di "Painkiller", è infatti noto l'abbandono di Rob Halford, fulminato sulla via di Damasco dal groove metal dei Pantera, e desideroso di provare ad imboccare quella strada per conto proprio. Così il cantante forma i "suoi" Fight, con i quali presenta la personale rilettura di "Cowboys From Hell"/"Vulgar Display Of Power" grazie all'ottimo "War Of Words". Dal canto loro, i quattro superstiti impiegano una vita nel trovare in Tim "Ripper" Owens il sostituto dell'iconico vocalist, al quale viene peraltro consegnato del materiale molto simile al songwriting dei succitati Pantera. Mi riferisco ovviamente al discusso "Jugulator", anno 1997. Lo stesso, ma con qualche mese di anticipo, di questo "Baptizm Of Fire", sorta di "piano B" dopo che Atlantic Records rifiutò il materiale di "Edge Of The World". Si trattava di un disco firmato dal chitarrista assieme a Cozy Powell (Rainbow, Whitesnake, Black Sabbath ecc.) e da John Enwistle (The Who): la casa discografica giudicò il lavoro troppo vintage e sofisticato per le esigenze di mercato del periodo, ed invitò Tipton a ripresentarsi all'appello con qualcosa di più contemporaneo. Detto, fatto: pur mantenendo una pletora di ospiti importante, da Robert Trujillo a Billy Sheehan, da Don Airey a Shannon Larkin, il "battesimo di fuoco" di Glenn può essere visto anche come una sorta di dichiarazione di intenti rispetto a quello che, di lì a poco, sarebbe stato presentato come il nuovo Judas Priest. Intendiamoci, non siamo ai livelli di "violenza", a volte parossistica, che presenterà "Jugulator": tuttavia il ribassamento delle accordature, il mood oscuro e pragmatico di pezzi quali "Hard Core", "The Healer" e "Cruise Control" annunciano novità importanti all'orizzonte. La cover quasi "thrash-ata" del classico Stones "Paint It Black" è la dimostrazione di quanto il chitarrista inglese sia in grado di mettersi in discussione, come poi conferma in brani spietati quali "Kill Or Be Killed" (veramente prossima ai Fight di Halford) oppure "Extinct". Non mancano nemmeno alcune suggestioni vagamente grunge-izzate, tipo le armonie scelte per "Voodoo Brother" (splendida), per la southern oriented "Left For Dead", e per l'uggiosa "Fuel Me Up". Molto criticato alla sua uscita per soluzioni giudicate eccessivamente trendy, riscoperto solo una decade più tardi quando Atlantic decide di ristamparlo assieme al succitato "Edge Of The World". E meno male.
Se gli Iron Maiden sono la band heavy metal più unanimamente amata nell'universo, altrettanto unanime (o quasi) sarà la risposta alla domanda su quale sia il loro album peggiore. Per la solita storia "vox populi, vox dei" si concorderà a stragrande maggioranza su un titolo: "Virtual XI". Il fatto è che questo è un blog, neologismo di diario personale; e caso vuole che, al sottoscritto, questo album è sempre piaciuto un sacco. Ma proprio tanto! Reduci dal discusso "The X Factor", oggi sicuramente rivalutato da molti eppure all'epoca schifato da tutti, Steve Harris e soci confermano ovviamente Blaze Bayley, lasciando appositamente in secondo piano la vena doom-prog del 1995. Due anni e mezzo dopo, tempo di mondiali di football, ed una realtà che inizia ad entrare con tutte le scarpe nella "web zone": col loro consueto talento visionario, gli Iron Maiden prendono tre piccioni con una fava. 1) Il Virtual sta ovviamente a rappresentare la perc...


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