Fermi tutti. Non perché, quando "tuonano" nuove invettive musicali dei Paradise Lost bisognerebbe ascoltare in religioso silenzio. Anche per quello, certo. Stavolta però il tutto viene ingigantito da una prova letteralmente magistrale, in grado di non sfigurare rispetto ai classici rilasciati tra il 1992 ("Shades Of God") ed il 1995 ("Draconian Times"). Nel mezzo, come ben sapete, ci sta quel "Icon" (1993) che va annoverato tra i dischi metal più belli post 80's. Se posso essere sincero fino in fondo, nonostante la mia "non simpatia" verso le edizioni risuonate dei vecchi album, ho trovato la celebrazione del suo trentennale assai riuscita. Come se Holmes e Mackintosh avessero sentito il bisogno impellente di immergersi nuovamente in quel medesimo mood per riaccendere la vecchia magia, con tutti i trucchetti del caso. "Ascension" non è destinato a cambiare le sorti della band di Halifax, tantomeno di un genere i cui paletti restano ancora ben delimitati. Se dunque "Icon" rimane la pietra filosofale cui aspirare, è innegabile che quel sentore di solenne mestizia e profonda prostrazione spirituale viene riproposto ancora oggi in tutto il suo nero splendore. Il growl è ben presente, infatti "Shades Of God" rimane probabilmente il punto di partenza più evidente; anche se ovviamente, nel frattempo, ci sono stati album come "The Plague Within" e "Medusa" che ne hanno aggiornato, se non gli stilemi, almeno la "confezione" della proposta. È sempre bellissimo seguire contemporaneamente due linee melodiche all'interno degli stessi brani come ai vecchi tempi: la voce di Holmes da una parte, la chitarra di Mackintosh da un'altra, eppure la sincronia generale risulta perfetta. Vero cuore pulsante dei Paradise Lost, la sei corde di Gregor si conferma fucina pressoché inesauribile di riff e soluzioni armoniche, mai finalizzate a sé stesse, ma sempre funzionali alla creazione di un'atmosfera o di una sensazione. "Ascension" ha quindi due livelli di lettura emozionale: quello più ovvio e "superficiale", legato alle strofe intonate da Nick, ed uno maggiormente subdolo/sinuoso se ci si lascia trasportare dalle (poche) note di Mackintosh. Un lavoro diviso equamente tra il gothic doom "old school" ed il metal post "black album", disco che peraltro ebbe il suo peso anche nello snellimento artistico avvenuto durante il cruciale periodo tra i pluricitati "Shades Of God" ed "Icon". Non stupisca più di tanto, ad esempio, che l'iniziale "Serpent On The Cross" strisci mortalmente tra i meandri dell'inconscio come l'antica "Mortals Watch The Day". Oppure che le severe ambientazioni di "Tyrant's Serenade" (ideale crossover con i Type O Negative) e "Lay A Wreath Upon The World" ribadiscano l'approccio unico ed originale di una band inconfondibile tra un milione. Perché, al netto di un papabile hit quale "Savage Days", il segreto della longevità sta tutto qui.
ALESSANDRO ARIATTI
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