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SIGNAL "LOUD & CLEAR" (1989)

1989: anno magico per l’AOR, il class/hair/pop metal. Chiamatelo come volete, tanto ci siamo capiti. Il genere “tira” ancora, eccome; però è come se si avvertisse già all’orizzonte una tempesta che avrebbe fatto scomparire il mondo “felice” e spensierato che aveva favorito lo sviluppo di determinate tendenze stilistiche. Cade il Muro di Berlino, ma i profeti di pace verranno smentiti di lì a poco. L’orso sovietico si sfalda ed il colpo di stato dei nostalgici del 1991 getta il mondo sotto l’ala del terrore, mentre sullo sfondo iniziano i venti incendiari del primo conflitto del Golfo. Non voglio accendere discorsi più grandi del dovuto, in fondo stiamo parlando di musica, ma se è vero che l’arte delle sette note risulta sempre specchio dei tempi (sostengono “quelli bravi”), allora non si fatica a giustificare il crollo di determinate forme di espressione, basate sostanzialmente su edonismo e tanto divertimento. Oltre che da un cristallino talento compositivo tuttora senza eguali. Da questo punto di vista, nonostante i capolavori di settore continueranno almeno fino al 1992 (Giant, Unruly Child, Hardline, Harem Scarem), Signal può essere considerato come un autentico vessillo-sentinella: intanto perché, nonostante un contratto EMI, il loro esordio “Loud & Clear” fa letteralmente impazzire gli appassionati dell’epoca, data la reperibilità pressochè impossibile. Per diversi mesi, non esistendo Internet et similia, si può soltanto volare sulle ali della fantasia, puntualmente evocate dal magistrale scritto di Beppe Riva su Metal Shock, il quale lo descrive praticamente come uno dei più fulgidi punti di riferimento del genere. E scusate se è poco. Il resto lo fa la configurazione del gruppo, formato dallo straordinario vocalist Mark Free (reduce dai fasti coi King Kobra), dall’ex batterista degli Alcatrazz Jan Uvena, nonché dal bassista/tastierista Erik Scott e dal chitarrista Danny Jacob, con un passato assieme a Sheena Easton. Inizialmente il produttore scelto risponde al nome di Danny Kotchmar, ma il suo impegno con Don Henley lo costringe a dare forfait. Free ripiega (si fa per dire) sul guru Kevin Elson, che contribuisce alla realizzazione di un lavoro talmente perfetto da sfiorare l’irreale. Non vorrei esagerare, ma credo che livelli simili siano raramente stati toccati pure dai giganti (Journey, Foreigner, Toto). Imbarazzante la qualità media, con canzoni come “Arms Of A Stranger”, “Does It Feel Like Love” e “My Mistake” che sciorinano squillanti suoni di tastiere e controllati riverberi chitarristici, aggiungendo ariosità a linee melodiche ben più che esaltanti. “This Love, This Time” e “Wake Up You Little Fool” (firmata dal cult-hero Van Stephenson) emozionano per il loro tocco maggiormente introspettivo, caratteristica che tuttavia non ne intacca la spettacolarità. C’è poi “Liar”, anthem prossimo a certe soluzioni meno HM dei King Kobra, seguita dalla ballad “Could This Be Love”, che vola lontana da ogni manierismo pre-confezionato grazie alla sua rara sintonia esecutiva.  “You Won’t See Me Cry”, “Go” e “Run Into The Night” certificano che ogni traccia di “Loud & Clear” conserva quell’alone di magia in grado di trasformare un grande album in un autentico classico.  Il quartetto durerà un battito di ciglia, e quando si riuscirà finalmente anche in Europa procurarsi il CD, il sipario è già calato definitivamente. Eppure noi siamo ancora qui ad ascoltarlo: e con molta frequenza. L'ancor fresca notizia della scomparsa di Mark Free (trasformatosi in Marcie Free ad inizio 90's) non riesce a togliere il sorriso al ricordo di un'epoca inavvicinabile.
ALESSANDRO ARIATTI

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