Photo by Alysse Gafkjen
Il fatto che i Led Zeppelin siano probabilmente "LA" rock band per eccellenza è un'opinione molto diffusa. Ad alimentarne la leggenda, oltre ad una sequela di dischi immortali, anche il rifiuto, soprattutto da parte di Robert Plant, ad ogni avance di remunerativa reunion. Nonostante, è bene sottolinearlo, offerte pecuniarie che avrebbero fatto vacillare anche i santi. Giusto una manciata di rimpatriate live, col figlio d'arte Jason Bonham al posto di babbo John, ma niente nuova musica. Quando iniziai ad interessarmi di hard'n'heavy, nei primissimi anni '80, il "Dirigibile" aveva da poco terminato l'ultimo volo di "In Through The Outdoor", mentre la tragica scomparsa di Bonzo mise fine ai giochi. Ricordo tuttavia benissimo l'intoccabile aurea che ha sempre circondato i Led Zeppelin, tanto che epigoni del loro suono, seppur contestualizzato nella decade di riferimento, venivano presi di mira come pagliacci. Persino un personaggio dal pedigree Deep Purple come David Coverdale, quando decise di far svoltare i suoi Whitesnake in quella direzione, trovò sulla sua strada l'ironia feroce di Sir Plant ad attenderlo. Oltre, ovviamente, ad un successo planetario che se ne infischiava di invettive più o meno celebri. Per non parlare dei Kingdom Come, il cui debutto (eccellente) rinfrescava la mitologia Zep ben più dei The Firm di Jimmy Page o dei dischi solisti del biondo frontman, impegnato in campagne denigratorie "ad personam". La contestazione a mo' di linciaggio venne in larga parte condivisa dai fans storici del quartetto, in nome di una esclusività artistica più unica che rara. Francamente non ho mai sentito Aerosmith, Black Sabbath o Rolling Stones, con relativi followers in coro, lamentarsi di imitatori vari, nonostante una presenza di "cloni" sempre massiccia. Quindi la domanda sorge spontanea, come si suol dire: perché i Led Zeppelin dovrebbero godere di un copyright particolare, rispetto ad altri nomi altrettanto storici? Anche perché, è bene ricordarlo, loro stessi si sono sempre dichiaratamente definiti "derivativi" rispetto agli esponenti antichi del blues del Delta.
L'album è maledettamente efficace, nonché innegabilmente affascinante, ed ha comunque il merito di mettere all'attenzione delle nuove generazioni i dettami del vintage hard rock 70's. Chissà che a qualche giovane ascoltatore non venga in mente di approfondire la materia, così come succedeva a noi anche quando non tutto era a portata di clic. Greta Van Fleet mostrano poi margini di crescita e personalizzazione della proposta nel successivo "The Battle At Garden's Gate" (2021), aumentando il tasso simbolico/esoterico, grazie ad un deciso innalzamento della "cifra" progressive e pomp rock. Non solo nell'iniziale (e straordinaria) "Heat Above", follow up in versione più matura della già citata "Age Of Man"; ma anche su tracce maggiormente "indipendenti" rispetto al suo predecessore, vedi la rocciosa "Built By Nations", "Age Of The Machine" (una "No Quarter" con la chitarra che sostituisce le trame organistiche) e la quasi sinfonica "The Weight Of Dreams". Certo, eliminare le proprie tracce di DNA artistico non sarebbe né possibile né giusto, quindi le reminiscenze del Dirigibile rimangono tangibili. Tuttavia l'approccio risulta nettamente più personalizzato e consapevole. Chi sostiene il contrario, pur avendo masticato qualche decennio di rock, mente sapendo di mentire.
La parabola si chiude, per ora, nel 2023 con l'uscita di "Starcatcher". Una copertina bianco abbacinante sembra in aperta contraddizione con l'oscura opener "Faith Of The Faithful", seconda opera rock devota a "No Quarter": e stavolta con tanto di tenebrose tastiere a definirne il climax dominante. Presenti anche semi-ballad dal retrogusto epic folk, che riverberano l'eco immortale di "Ramble On" (da "Led Zeppelin II"), quali "Waited All Your Life" e "Sacred The Threat". Splendido, nella sua finta semplicità, il singolo "The Indigo Streak", per non parlare della sinfonia pagana "Meeting The Master", con tanto di acrobazie vocali (ovviamente di Josh) simbiotiche a lussureggianti arrangiamenti orchestrali. Forse "Starcatcher" si posiziona un gradino sotto a "The Battle At Garden's Gate", tuttavia si tratta di dieci canzoni-dieci che non ammettono la minima caduta di tono. Dice Robert Plant: "C'è un gruppo, chiamato Greta Van Fleet, che sembra veramente noi da giovani. Il loro piccolo cantante è bravissimo, e mi pare che abbia preso a prestito l'ugola da qualcuno che conosco bene. Lo odio! Però hanno classe, perché dicono di ispirarsi agli Aerosmith". E giù risate, ma non di sberleffo: direi piuttosto di affetto, come farebbe un nonno a cospetto del nipotino. Anzi, dei nipotini.
ALESSANDRO ARIATTI
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