Nato come genere di "strada", l'heavy metal degli anni 80 (a differenza del "metal", come viene considerato oggi, una sorta di figlio assai poco legittimo) ha iniziato ben presto a sviluppare velleità artistiche inaspettate. Già con l'avvento degli Iron Maiden e delle loro citazioni macabro-colte sui primissimi album, dalla letteraria "Phantom Of The Opera" a quella "Murders In The Rue Morgue" ispirata ad una delle novelle più famose di Sir Edgar Allan Poe, si poteva intuire che qualcosa stava già bollendo in pentola. Abbacinati da tanta furente bellezza, da una barbarica spinta elettrica mai sperimentata fino ad allora, e con un'età guidata più dall'entusiasmo che dall'introspezione, probabilmente non riuscimmo a cogliere in tempo reale determinate ambizioni che, pian piano, iniziavano a propagarsi a macchia d'olio sull'intero movimento. Fino alla decade precedente, sembrava che la noblesse oblige del concept album fosse esclusiva proprietà delle grandi progressive rock band, specialmente della scuola inglese, con entità assolute quali Genesis, King Crimson, Emerson Lake & Palmer o Pink Floyd a gestire aristocratici pruriti intellettuali, annegati in un humus di rara creatività. Lascio tuttavia certe disamine a gente ben più ferrata del sottoscritto, che abbia magari vissuto sulla propria pelle l'epopea d'oro del cosiddetto "art rock". Mi pare doveroso, ad ognuno il suo: releghiamo i tuttologi al mezzo televisivo, oppure a qualche caso disperato del web. Quello che invece mi preme sottolineare, almeno in questa sede, è la dilagante acquisizione di "album a tema unico" (una storia che lega tutte le canzoni di un disco, da cui la nomea di "concept") come modus operandi anche di molti personaggi legati a doppio filo all'HM. Ricordo quando vidi la copertina di uno dei primissimi numeri di Metal Shock, sulla cui copertina campeggiava un King Diamond nelle solite pose horror-kitsch: sapevo che avrebbe dovuto uscire il suo nuovo LP, ma pochissimi (o nessuno) erano a conoscenza del fatto che "Abigail" fosse basato su un plot narrativo uniforme, dall'inizio alla fine. Almeno a livello di "big", e col senno di poi, si può probabilmente considerare il succitato 33 giri come il "paziente zero" di un meraviglioso virus che avrebbe contagiato nomi ancora più altisonanti dell'istrionico vocalist danese.
"OPERATION MINDCRIME" (1988)
In seguito al parziale insuccesso di "Rage For Order" (1986), i Queensryche si leccano le ferite. Troppo "avanti" per il pubblico di quegli anni, e soltanto pochi eletti ne intuiscono il potenziale "avant-garde", tra un "Orgasmatron" (Motorhead) ed un "Turbo" (Judas Priest) a canalizzare le discussioni. E riguardo alle "nuove sensazioni", tocca a "Master Of Puppets" (Metallica) e "Reign In Blood" (Slayer) tenere banco. I Queensryche pagano una voglia di osare giudicata eccessiva, retaggio di un periodo storico in cui anche le major mettono carta bianca davanti al naso dei musicisti. Nonostante il flop, EMI rinnova infatti la fiducia a Geoff Tate e soci, i quali si ritrovano però nella scomoda situazione di non poter sbagliare nuovamente il bersaglio grosso. E non parlo di qualità artistica, ovviamente, ma di opportuna accoglienza commerciale. "Il nuovo album sarà molto più stradaiolo", sostiene la band in una delle interviste che girano sui magazine, gettando nello sconforto la stragrande maggioranza dei fans. C'è già chi si immagina un Tate agghindato da Stephen Pearcy o Vince Neil, ed un Chris De Garmo mentre macina riff basici alla "Girls Girls Girls". Mai fare i conti prima del l'oste, soprattutto se si parla di Queensryche.
"STREETS: A ROCK OPERA" (1991)
Se la sceneggiatura dei Queensryche parte dall'elaborazione di tormenti interiori, portati alla fragorosa attenzione della società a suon di proiettili, i Savatage di "Streets: A Rock Opera" seguono esattamente il percorso inverso. Nato da uno scritto originariamente studiato per la rappresentazione a Broadway da parte di Paul O'Neil, ormai deus ex machina della band, il progetto viene ripreso in mano da Criss Oliva, che lo propone al fratello Jon come successore di "Gutter Ballet". Le dinamiche dell'album non sono minimamente accostabili alle implicazioni socio-politiche di "Operation Mindcrime", ed il main character "Downtown Jesus" non ha nulla in comune col Nikki "marionetta" del terribile Doctor X, eccezion fatta per le droghe. Se la forza dei Queensryche si esplicava nel dirompente impatto delle "reazioni conseguenti alle azioni", i Savatage di "Streets" scelgono la via della redenzione interiore come catarsi, dapprima dolorosa, infine dolce e salvifica. New York City "non significa niente", canta un Jon Oliva calato perfettamente nelle vesti di un personaggio del quale condivide le medesime dipendenze, mentre si aggira come un "fantasma tra le rovine" di una città divenuta improvvisamente ostile.
Musicalmente parlando, l'album viaggia di pari passo con le liriche, tra slanci di violenza ("Jesus Saves", di cui viene girato un videoclip) ed amare introspezioni ("Tonight He Grins Again"), che fanno di "Streets" il logico successore di "Gutter Ballet". Lo slancio emozionale, con cui Jon Oliva affronta i brani, non mentirebbe neppure sotto minaccia: esattamente come DT Jesus, anche il gigantesco vocalist è alla disperata ricerca di qualcosa a cui aggrapparsi per "curare la propria anima" ("Heal My Soul"), seppur con l'amara consapevolezza legata alla miseria della propria esistenza ("If I Go Away"). Lo zenith viene sublimato in un finale clamoroso, quando il Gesù dei sobborghi ("downtown") incontrerà quello nell'alto dei cieli per l'inno "Believe". Il pezzo non è solamente l'indimenticabile chiosa ad un disco-capolavoro, ma anche uno dei più fulgidi esemplari del talento compositiva ed esecutivo di "Big" Jon. La simbiosi tra pianoforte e voce tocca "corde" talmente profonde da elevare quel "I am the way, I am the light, I am the dark inside the night" ad autentico "mantra" per un'intera generazione di HM fans. Quelli dal palato fino e dal cuore ricettivo.
"THE CRIMSON IDOL" (1992)
Pochi gruppi hanno dimostrato una crescita "concettuale" come i Wasp. Nati come shock metal act, con tanto di espliciti riferimenti a sangue, sesso e torture varie, Blackie Lawless e compagni hanno spinto il baricentro dei propri interessi lirici sempre più in alto. Le prime avvisaglie si verificano col terzo (ed ancora godereccio) lavoro "Inside The Electric Circus": l'album è spigliato e quintessenziale, tuttavia alcuni testi iniziano a mostrare i primi segnali di insofferenza verso il music business, che lo stesso Lawless comincia a vedere come uno spietato circo. Non credo di sbagliare se affermo che, al netto del ben più strutturato "The Headless Children" (la side A è leggendaria), Blackie matura la storia di "The Crimson Idol" sulle esperienze vissute nel periodo attorno al 1986. Quando si arriva al momento delle registrazioni, i Wasp non sono praticamente più una band, ma una sorta di progetto catalizzato attorno alla carismatica figura di Lawless. Le radici del Male stavolta non derivano da una società marcia fino al vertice (Queensryche), oppure da angeli dell'autodistruzione (Savatage). Niente di tutto ciò, perché il personaggio principale Johnathan Steele è vittima di quello che dovrebbe rappresentare il luogo più sicuro al mondo: la famiglia. "Il ragazzo invisibile" vive di luce riflessa rispetto al fratello Michael, e quando quest'ultimo muore improvvisamente, l'astio parentale nei suoi confronti diventa autentico odio.
Alimentato dal fuoco della rivalsa, Johnathan viene folgorato da una chitarra elettrica, scoprendo di avere il dono della musica, tanto da diventare una rock star mondiale. Nel corso della sua avventura, incontra personaggi ben poco raccomandabili che lo incanalano su strade di pericolose frequentazioni chimiche ("Doctor Rockter"), squali delle case discografiche ("Chainsaw Charlie") che usano il potere alla stregua di mattatoi, e persino una zingara che lo avverte del suo destino ("attento a quello che desideri, perché potrebbe avverarsi"). Una volta ottenuto il successo, durante uno dei soliti festini "pieni di niente", Johnathan sente impellente il bisogno di telefonare alla propria famiglia e di tornare a parlare coi propri genitori. La risposta della madre è gelida: "non abbiamo alcun figlio", dice dall'altra parte della comunicazione. È la classica goccia che deborda il classico vaso verso il tragico finale suicida. "The Crimson Idol" è un album talmente intenso da togliere il fiato: canzoni come "Murders In The Rue Morgue" da una parte, e "The Idol" dall'altra, fanno persino venire il sospetto che vi possa essere qualcosa di autobiografico. Un dubbio alimentato pure dal fatto che Lawless si sentirà svuotato psicologicamente (per sua stessa ammissione) dopo la realizzazione del disco. E che dovrà prendersi una lunga pausa prima di pensare di dedicarsi ad un successore.
ALESSANDRO ARIATTI
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