Reduce dal successo di vendite (e relativo tour di accompagnamento) di "Wild Frontier", Gary Moore si presenta in forma invidiabile nel 1989. Dopo i fasti dei Thin Lizzy, il chitarrista irlandese torna finalmente a veder campeggiare il proprio nome tra le priorità delle riviste specializzate (e non), tanto che "After The War" si candida a diventare una delle priorità dell'annata. Confermatissima l'alleanza con Virgin Records, l'album può contare su uno schieramento di "collaboratori" da paura: Cozy Powell, Bob Daisley, Don Airey, Simon Phillips, Neil Carter. Giusto per limitarsi ai più altisonanti. Senza ovviamente dimenticare la "stella" più brillante, che risponde al nome di Ozzy Osbourne, ospite sul brano "Led Clones". Trattasi di una presa in giro di quegli artisti che, all'epoca (andavano molto di moda i Kingdom Come), prendevano come punto di riferimento gli Zeppelin, sfiorando il plagio nei contenuti e nella forma. La traccia, quarta in scaletta, è la tipica pantomima alla "Kashmir" ben eseguita; ovviamente non può non ricalcare gli stilemi di quella "Get It On" firmata dai succitati Kingdom Come, che aveva scalato le classifiche suscitando la feroce ironia di Sir Robert Plant in persona. Fortunatamente, al di là della buona riuscita del pezzo, anche grazie alla cantilenante voce di "mago" Ozzy, sul disco c'è ben altro. E, soprattutto, di meglio! Come l'arrembante title-track, con quelle tastiere squillanti e la ritmica rutilante, che conducono ad una linea vocale memorabile. Gary si supera per drammaticità anche in "Speak For Yourself", stemperando il clima serioso con "Livin' On Dreams", episodio maggiormente spensierato e radiofonico del lotto. Se "Running From The Storm" pare la nuova versione di "Out In The Fields" (singolo scritto ed eseguito assieme a Phil Lynott), "Blood Of Emeralds" cerca di replicare senza mezzi termini il canovaccio di "Over The Hills And Far Away". E come dargli torto, visto l'entusiasta riscontro? "Ready For Love" è un hard rock quasi Bad Company style, soltanto in parte riverniciato secondo i dettami del tempo, mentre "This Thing Called Love" insegue lo spettro Van Halen per urgenza e stile chitarristico. "After The War" è l'ultima vera e propria testimonianza di Moore in campo hard'n'heavy, perché dall'anno successivo inizierà il suo percorso totalmente blues. Anche per questo, lo ricordiamo con immutato affetto.
ALESSANDRO ARIATTI

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