Sono tre decenni abbondanti quelli che separano "Dissonance Theory" dal suo predecessore "Grin". Eppure, se è vero che, all'epoca, i Coroner non hanno mai valicato il confine di "band da culto", è altrettanto vero che questa reunion è stata una delle più attese da tempo immemore. Sarà perché il terzetto svizzero ha sempre contato su uno sparuto (ma fedelissimo) seguito di appassionati ai limiti del fanatismo; sarà perché il loro tipo di musica sembra, per definizione stessa, un'affare "elitario". Sarà anche perché molti gruppi li citano apertamente (nelle dichiarazioni) o nei fatti (gli album) come imprescindibile fonte d'ispirazione, ma l'attesa per questo disco era veramente palpabile. Conoscendoli fin dai tempi di "R.I.P.", ero praticamente certo almeno di una cosa: non sarebbe stato un comeback banale, né tanto meno risaputo. Ed infatti, così è. La copertina, con quella banda nera verticale, che ricorda sia l'originale di "Punishment For Decadence" che quello di "No More Color", è un piacevole deja-vu visivo; ma le "dissonanze" rispetto al passato, ormai remoto, prevalgono. Intendiamoci, i Coroner restano riconoscibili dopo pochi secondi, e non solo per la voce "strozzata" di Ron Royce. Se per molte vecchie glorie vale l'assioma "meglio un mixaggio old style", lo stesso non si può dire per gli elvetici: la loro proposta è un magma vivo, ed il lavoro effettuato da Jens Borgren alla consolle ne percepisce il calore senza stravolgerne l'essenza. Possiamo dire addirittura che, al di là del titolo, "Dissonance Theory" sia in assoluto il loro lavoro più orecchiabile. Dove "orecchiabile" assume un significato tutto proprio all'interno dell'universo parallelo Coroner. Difficile parlare di alcuni brani a discapito di altri: trattasi di un'esperienza che richiede immersione totale, psichica ed oserei dire "filosofica". Il fatto è che, stavolta, non esistono proprio quei "filler" sinonimi di "brani insignificanti", perché tutto ha una logica al fine di andare a completare il genoma rappresentato dall'artwork. Filamenti di DNA che, in quanto tali, ne distinguono l'unicità. Album semplicemente incredibile.
Se gli Iron Maiden sono la band heavy metal più unanimamente amata nell'universo, altrettanto unanime (o quasi) sarà la risposta alla domanda su quale sia il loro album peggiore. Per la solita storia "vox populi, vox dei" si concorderà a stragrande maggioranza su un titolo: "Virtual XI". Il fatto è che questo è un blog, neologismo di diario personale; e caso vuole che, al sottoscritto, questo album è sempre piaciuto un sacco. Ma proprio tanto! Reduci dal discusso "The X Factor", oggi sicuramente rivalutato da molti eppure all'epoca schifato da tutti, Steve Harris e soci confermano ovviamente Blaze Bayley, lasciando appositamente in secondo piano la vena doom-prog del 1995. Due anni e mezzo dopo, tempo di mondiali di football, ed una realtà che inizia ad entrare con tutte le scarpe nella "web zone": col loro consueto talento visionario, gli Iron Maiden prendono tre piccioni con una fava. 1) Il Virtual sta ovviamente a rappresentare la perc...

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