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CAPRICORN "CAPRICORN" (1993)



Sono anni difficili per l'heavy metal classico. Riviste e trend si dividono sostanzialmente in due tronconi: chi segue le diramazioni non richieste del Seattle sound, chi si tuffa a corpo morto nelle riprovevoli gesta extra musicali degli alfieri del "black from Oslo" e dintorni. Nel mezzo, praticamente non c'è nulla. O meglio, nulla che i media si prendano la briga di raccontare, quasi che i ribelli del "nuovo ordine musicale" fossero un manipolo di imperterriti nostalgici destinati ad un veloce oblio. Come sono andate poi le cose, nella realtà, è sotto gli occhi di tutti: oggi si parla addirittura di "new wave of traditional heavy metal" o formulette simili, col "vecchio" che è diventato il nuovo da raccontare, mentre gruppi che avrebbero dovuto sovvertire le sorti del rock duro vengono mestamente relegati ad una breve nota a pie' di pagina nelle varie enciclopedie. Un breve preambolo per dire che, in buona sostanza, il metal classico, quello nato agli inizi degli anni 80 come costola evoluta dell'attitudine punk, non è mai sparito. I tedeschi Capricorn ne sono un tipico esempio: un sound che non inventa nulla, che si accoda anzi alla lezione dei Motorhead, ma che si traduce in un paio di dischi dalla tremenda efficacia. L'omonimo esordio, datato 1993, è una piccola boccata d'ossigeno per tutti coloro che non si rassegnano ad accettare il diktat mediatico secondo cui gruppi che hanno letteralmente scritto la storia, sarebbero improvvisamente diventati polverosi articoli da antiquariato. Figuriamoci coloro che ne seguono le gesta. Eppure non c'è nulla di particolarmente stantio quando il riff tetragono di "Mob In The Hood" apre il fuoco delle ostilità, e nemmeno quando le sgraziate vocals di Adrian inseguono il fantasma di Lemmy, aggiungendo un piglio (ed un accento) piacevolmente teutonico. I Capricorn sono il classico, "vetusto" metal trio, che vede il già citato Adrian al basso ed alla voce, David alla chitarra, Stefan alla batteria. Proprio quest'ultimo, una volta conclusasi questa breve ma proficua esperienza dopo la pubblicazione del secondo lavoro "Inferno", troverà spazio in pianta stabile presso gli eroi nazionali Grave Digger, ed ascoltando fucilate speed tipo "One Shot From Murder" o "Burn" non si fa certo fatica a comprenderne il motivo. Non c'è il minimo spiraglio per raffinatezze o giri di parole: headbanging, tanto headbanging, solo headbanging. Come se le lancette dell'orologio si fossero fermate tanti anni prima, e la data segnata sul calendario arrecasse 1983 anziché 1993. Anche la ballad di turno "Lonely Is The Word" (peraltro splendida) punta dritto al dunque, con un bell'arpeggio di acustica che spiana la strada per una linea melodica tanto semplice quanto efficace. È comunque solo un attimo di "pace" in uno tsunami di elettricità spietata, visto che le varie "Light Up Your Mind", "Bomb Eden" e "Shotdown Downtown" non concedono il benché minimo spazio ad evoluzioni o aggiornamenti stilistici. Metal nudo e crudo, come si dovrebbe eseguire sempre per scatenare "la bestia" in tutta la sua carica selvaggia. In "Mr Voorhees", dedicata ovviamente al sanguinario serial killer della saga Venerdì 13, vengono citati apertamente i Metallica, almeno prima che il rincoglionimento senile li portasse a gareggiare (si fa per dire, viste le figure "barbone") con Lynyrd Skynyrd o ZZ Top nei vari "Load", "Re-Load" e stronzate simili. "The Harder They Fall" rivendica l'appartenenza nazionale dei Capricorn, visto l'imparentamento stilistico, nemmeno troppo velato, col futuro gruppo del batterista Stefan, ovvero i già citati Grave Digger. E se la scatenata "Long Way Home" parla nuovamente la favella Motorhead, in virtù di un approccio rock'n'roll portato ovviamente all'esasperazione, l'atto conclusivo "Exceeding The Limits" vive su dinamiche thrash old school volutamente "ottuse" ed oltranziste, in pieno accordo con lo spirito di un album intransigente. Non date troppo peso a chi parla di ritorno del metal classico, oppure dell'inedito ripescaggio di determinate sonorità ataviche: in realtà, esse sono sempre rimaste tra noi, magari non sempre in bella mostra come accade oggi. Basta sapere dove mettere i piedi, in un sottobosco pressoché sterminato. 

ALESSANDRO ARIATTI





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