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JOE LYNN TURNER "BELLY OF THE BEAST" (2022)



Quindici anni sono molti, e non solo in ambito musicale. Tanto è il tempo intercorso tra l'ultimo album in studio di Joe Lynn Turner ("Second Hand Life") ed il suo erede "Belly Of The Beast". Tutti, o quasi, conoscono il leggendario frontman americano come "uomo del melodic rock/AOR", traghettatore di Rainbow, Malmsteen, Deep Purple, ma anche raffinato "dicitore" solista. Pochi, invece, si sarebbero probabilmente aspettati un cambio di marcia come questo. Via la parrucca, ancora feticcio irrinunciabile per molte star che non riescono a fare i conti col tempo che passa, ma soprattutto avanti con uno stile finora "inedito" per Joe. Chiamatelo melodic metal, se volete, di certo l'incontro con Peter Tagtren si è rivelato determinante per materializzare la nuova aura artistica di Turner, decisamente tendente al nero. "Viviamo nel sistema della Bestia", ha detto il cantante in una delle interviste promozionali al disco: un sistema in cui tutto è controllato, monitorato, deciso dall'alto come nel peggior incubo Orwelliano. "Non diventerò mai un robot come vogliono questi pazzi: no way!" ha aggiunto, dimostrando uno stato di consapevolezza che soltanto i "risvegliati" possono vantare nei riguardi della follia transumanista che sta tenendo in scacco il mondo da quasi tre anni.

Ricordate il Turner "AOR God" di "Rescue You"? Oppure le sferzanti trame di un "Holy Man"? Dimenticatevele in fretta. La title-track, ad esempio, vanta una feroce dinamica quasi "Painkiller"-iana", e dove la maggior parte dei gruppi power scadrebbero nel cliché, Joe assurge al "class status" che lo ha sempre contraddistinto, soprattutto nel bridge che conduce al refrain. Le lyrics, poi, sono quanto di più terribilmente heavy sia mai uscito dal pennino del singer statunitense. "Black Sun" suona come una versione "esoterica", immaginifica ed evocativa dei Deep Purple: chissà cosa ne penserebbe Ritchie Blackmore, semmai si degnasse di ascoltarla. "Il sole nero sta sorgendo, i giorni oscuri sono arrivati", citano le parole del ritornello: non si tratta di una profezia, ma di una semplice constatazione di fatto, almeno per chi ha occhi per vedere ed altri sensi per captare. "Tortured Soul" verte su un hard rock dalle scontrose venature gotiche, generate da un chorus in stile Carmina Burana che ben canalizza il disagio del protagonista del brano: un reduce di guerra devastato da PTSD (post traumatic stress disorder), che sente inesorabilmente sfuggire la propria umanità. E se "Rise Up", al netto di un testo ancora una volta da chiamata alle armi ("morite in piedi oppure vivete in ginocchio"), ricorda maggiormente il tipico Turner trademark, "Desire" fa tesoro delle atmosfere orientaleggianti di "Gates Of Babylon" (Rainbow) senza mai sfiorare il plagio.

La meravigliosa ballad "Dark Night Of The Soul" scava tra le paure umane più recondite ed ancestrali: in questo caso, Joe non ricama più sull'utopia romantica secondo cui "l'amore conquista tutto" ("Love Conquers All", da "Slaves And Masters" dei Deep Purple), tuttavia il talento per lo slow ad effetto immediato si manifesta, puro e cristallino, anche in questo contesto ben più tenebroso. Il "vernissage" melodic/power metal deflagra con tutti i crismi del caso in "Tears Of Blood" e "Don't Fear The Dark", tanto da gettare un "ponte" artistico nemmeno troppo velato con certi episodi degli ultimi Stratovarius, dai quali Turner estrapola anche un feeling di cupa ansietà, determinato sicuramente dalla visione lucida degli apocalittici eventi che stanno falcidiando la vita del mondo odierno. Se poi "Fallen World" si assesta su un'epica sinfonia per la fine imminente, "Living The Dream" stempera il climax con un approccio più sereno, prima che "Requiem", con i suoi deja-vu neoclassici alla Malmsteen, ponga il sigillo su un disco maiuscolo. Un lavoro che nessuno, nemmeno i più ottimisti, avrebbe atteso in tale misura.


ALESSANDRO ARIATTI






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